Nonviolenza. Femminile plurale. 250



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NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE
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Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino"
Numero 250 del 21 maggio 2009

In questo numero:
1. Rita Levi Montalcini: Liberate Aung San Suu Kyi
2. Floriana Lipparini: Il drago e le navi
3. Lega Internazionale di donne per la pace e la liberta': Ora basta!
4. Cinzia Gubbini: In Europa c'e' posto
5. Giuliano Battiston intervista Nawal Al Saadawi
6. Donatella Bassanesi: Intorno a Simone Weil
7. Ida Dominijanni: Imparare di nuovo ad amare
8. Tre postille al testo che precede
9. Marinella Correggia: Disastri

1. MAESTRE. RITA LEVI MONTALCINI: LIBERATE AUNG SAN SUU KYI
[Riceviamo e diffondiamo la seguente dichiarazione del premio Nobel e
senatrice a vita Rita Levi Montalcini]

Sono preoccupata per le condizioni di salute di Aung San Suu Kyi che, dalle
scarse notizie che ci giungono, si stanno aggravando. La reclusione in cella
avvenuta pochi giorni fa dopo la lunghissima prigionia in casa, cui il
governo del suo Paese la costringe da 13 anni, e' un ulteriore rischio per
la salute del premio Nobel birmano.
Nel rispetto dei diritti fondamentali di tutti gli esseri umani, Aung San
Suu Kyi deve essere liberata subito e ricevere le urgenti cure necessarie.
Mi auguro che l'appello avanzato a livello parlamentare, italiano ed
europeo, per la liberazione di Aung San Suu Kyi sia accolto dal governo di
Yangon. Con questo atto oggi il  Myanmar potrebbe aprire le porte al dialogo
per una auspicata riconciliazione nazionale.

2. UNA SOLA UMANITA'. FLORIANA LIPPARINI: IL DRAGO E LE NAVI
[Dal sito della Libera universita' delle donne di Milano
(www.universitadelledonne.it)]

Un braccialetto, da portare tutti i giorni, e un simbolo: la "I" di
immigrati. Un piccolo gesto necessario. Lo propone la campagna "Todos somos
Inmigrantes, ponte el brazalete", che si trova su Facebook. Mi sembra
importante. Dobbiamo far vedere pubblicamente, tutti i giorni, che ci sono
persone antirazziste, dobbiamo far crescere la protesta, soprattutto in
Lombardia, soprattutto a Milano dove le destre stanno oscenamente cavalcando
i peggiori sentimenti e la paure costruite ad arte.
Ma importantissimo e' anche muoversi a livello di protesta ufficiale: sul
sito www.comeunuomosullaterra.blogspot.com si puo' firmare una petizione on
line al Parlamento italiano ed europeo, alla Commissione europea e all'Alto
commissariato per i rifugiati, per promuovere una commissione d'inchiesta
internazionale e indipendente sugli accordi bilaterali fra Italia e Libia in
materia d'immigrazione.
La verita' e' che stiamo tornando a una condizione primigenia di vita e di
morte. Mentre astrusi e surreali dibattiti animano le nostre cronache e i
mass media sproloquiano di re e di regine (come han fatto a tornare?), nel
Mediterraneo si svolge una sanguinosa mattanza di migranti in fuga da guerre
e miseria. Rispetto della vita? Diritti umani? Doveri d'asilo? Non valgono
piu'. Frontex, il drago, si e' divorato tutto.
Sulla scena, intanto, automi mascherati da persone ripetono soddisfatti, con
sorrisi glaciali, che questi sono i sacrifici umani chiesti da Frontex per
risparmiare il nostro prospero stile di vita. "Siamo gia' riusciti a
ricacciarne cinquecento", dicono con vanteria da primi della classe, avendo
persino anticipato la data (15 maggio) in cui l'infame impegno al
respingimento diventera' ufficiale.
Per questo orrore dobbiamo dunque render grazie a Frontex, emblematico nome
di un'agenzia europea con sede a Varsavia nata all'unico scopo di respingere
al di la' del Mediterraneo africani disperati in cerca di vita e di lavoro,
quel Mediterraneo che per millenni e' stato liberamente solcato in ogni
direzione, carico di merci e di leggende, di spezie e di schiavi, di
esploratori e di pirati.
Se prima i richiedenti asilo riuscivano almeno a toccar terra e a
sopravvivere nonostante il trattamento inumano nei nostri ex Cpt e attuali
Cie, magari persino a svicolare per raggiungere luoghi di sfruttamento ma
pur sempre di vita (se vita si puo' chiamare, naturalmente), ora il vascello
dei dannati non puo' piu' nemmeno attraccare.
Ora un gigantesco drago di guardia in fondo allo Stivale apre le fauci e
vomita lingue di fuoco che appena la nave appare all'orizzonte ricacciano i
disperati nell'inferno da cui e' vietato fuggire. Anche se sei una donna,
anche se sei incinta, anche se sei un minuscolo essere di pochi giorni. La
forza mortifera di questa immagine e' omerica: un potere assoluto che
sovrasta vite inermi, in balia di un mare improvvisamente trasformato in
invalicabile frontiera. Cosa sara' obbligata a fare la marina italiana la
prossima volta? Dovra' tradire con disonore le antiche leggi del mare,
prendendo a cannonate gli scalcinati barconi?
In questi giorni ho visto due film-reportage, Come un uomo sulla terra di
Andrea Segre, Dagmawi Yimer, Riccardo Biadene, e Sulla via di Agadez, di
Fabrizio Gatti. "Dal 2003 Italia ed Europa chiedono alla Libia di fermare i
migranti africani. Ma cosa fa realmente la polizia libica? Cosa subiscono
migliaia di uomini e donne africane? E perche' tutti fingono di non
saperlo?", e' il sottotitolo del primo, un insieme di storie di rifugiati
che raccontano inenarrabili violenze e torture subite nei campi di
detenzione finanziati dall'Italia. "Dal Niger quasi 10.000 africani fuggono
verso le nostre coste. La guerra per l'uranio e l'alleanza Gheddafi-Sarkozy
favoriscono i trafficanti. E gli accordi Italia-Libia diventano cosi' una
beffa", dice il secondo, che punta "a far capire i motivi per cui, quando si
parla d'Africa povera e sempre piu' povera, l'Occidente c'entra".
Due film da vedere e da far vedere, due impietosi specchi del mondo
contemporaneo. Dov'e' finita l'Andalusia che per sette secoli rappresento'
un esempio di rispetto e convivenza? "Il potere ommeyade favori'
l'espandersi di una societa' in cui il gruppo dominante non schiacciava i
piu' deboli e dove musulmani, ebrei e cristiani vivevano in buon rapporto
gli uni con gli altri, comunicando nella vita quotidiana sull'esempio dei
piu' saggi fra loro", scrive l'esperta di storia e agronomia  medievale
Lucie Bolens parlando degli zejels, poemi del IX secolo composti da alcune
strofe scritte nelle diverse lingue. Li' le differenze erano cultura e
ricchezza umana.
Oggi invece ai massimi livelli istituzionali si proclama senza vergogna
l'istigazione alla chiusura e al razzismo. Quando i nostri "democratici"
politici parlano dell'Europa come del nostro luminoso futuro, sento i
brividi corrermi per la schiena. Lo sappiamo da anni: non come una terra di
liberta', non come un luogo di storia e di cultura che non ha bisogno di
frontiere si e' costruita l'Europa, ma come una fortezza per privilegiati
che pero' hanno il sovrano diritto di muoversi indisturbati nel mondo.
Diritto primario di ogni persona sulla terra, eccetto quegli africani che in
anni non troppo lontani tutto il mondo ha ufficialmente depredato e oggi
continua ipocritamente sottobanco a depredare, e a condannare a morte.

3. UNA SOLA UMANITA'. LEGA INTERNAZIONALE DI DONNE PER LA PACE E LA
LIBERTA': ORA BASTA!
[Ringraziamo Antonia Sani (per contatti: antonia.sani at alice.it) per questo
intervento. Antonia Sani e' presidente della Lega Internazionale di donne
per la pace e la liberta' - Wilpf Italia]

Ci stiamo abituando in Italia a convivere con la sottovalutazione della
dignita' della persona, con gli sberleffi alle istituzioni, col loro uso
palese e disinvolto come merce disponibile per gratificazioni personali.
Si', ci stiamo abituando, se le vicende che vedono protagonista in queste
ultime settimane il nostro presidente del Consiglio sono seguite come una
sorta di telenovela, e le sue battute, nei luoghi della politica, vengono
percepite come se ci si trovasse in un salotto o sulla spiaggia. Ultimo
esempio, in Campidoglio, in occasione della celebrazione per la legge su
Roma Capitale, le risate complici della sala gremita, alle battute allusive
del nostro presidente, non sono ancora una volta mancate...
Ci accade di domandarci dove si trovera' il fondo del baratro.
Ci spaventa questa sorta di acquiescenza diffusa di fronte a provvedimenti
quali il "pacchetto sicurezza", le quotidiane iniziative da apartheid della
Lega, condivise dal governo. Ci spaventa questo complesso intreccio di
disagio economico e incertezza del futuro che attanaglia l'esistenza e offre
come uscita un "fai da te" spietato in cui gli individui sono soli, spesso
alla ricerca di qualcosa che assomigli ai miti indotti, in gran parte
indifferenti alla sorte di chi sta peggio.
Difficile sembra in questo clima pensare a proteste di massa che vadano
oltre le manifestazioni di un giorno, o l'impegno di chi mantiene lucidita'
e coerenza.
Eppure, nonostante tutto, crediamo che i milioni di italiani e italiane che
ieri sera hanno visto dagli schermi televisivi il ministro Maroni teorizzare
il nuovo sistema di "accoglienza" delle imbarcazioni clandestine, un
sussulto lo abbiano avuto.
La nave respinta col suo carico di vite umane, come un pacco rinviato al
mittente, un mittente di cui non ci si preoccupa neppure di sapere chi in
realta' sia per quei disgraziati fuggiaschi, e' il primo esempio di un
allontanamento prima che il nostro suolo venga "contaminato".
L'attacco alla Costituzione e ai diritti umani e' indiscusso. Su
quell'imbarcazione ci potevano essere - come sempre - rifugiati politici,
ammalati, vecchi, bambini, donne incinte.
Non e' lecito respingerli, nemmeno adducendo il traffico illegale che si
serve dei loro corpi.
La nostra associazione, Lega Internazionale di donne per la pace e la
liberta' - Wilpf Italia - nata 90 anni fa per difendere i diritti umani e
una pace giusta, esprime la propria indignazione contro un governo che
consente un provvedimento come questo. Invita tutti e tutte a scuotersi
dallo stato di indolente sudditanza, a denunciare con forza anche per vie
legali l'attacco alla Costituzione, a far sentire all'Europa che in Italia
sono tanti che dicono: ora basta!

4. UNA SOLA UMANITA'. CINZIA GUBBINI: IN EUROPA C'E' POSTO
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 17 maggio 2009 col titolo "In Europa c'e'
posto" e il sommario "Il burden sharing e' lo strumento, previsto dalla
convenzione di Ginevra, che permetterebbe all'Italia di dividere i
richiedenti asilo con il resto dell'Ue. Ma il governo vuole
l'esternalizzazione"]

Ogni volta che il tema del diritto d'asilo diventa caldo, le soluzioni
proposte dagli Stati europei vanno solo in due direzioni: chiedere piu'
soldi ala Commissione e invocare l'esternalizzazione dell'esame delle
domande. Che la selezione dei rifugiati sia fatta nei paesi terzi, come la
Libia. Il ministro degli Esteri Franco Frattini ha addirittura proposto di
esaminare le richieste di protezione direttamente sulle navi che salvano i
profughi in alto mare. Ma, singolarmente, nessuno pensa di proporre
l'utilizzo del "burden sharing". Letteralmente "suddivisione del fardello",
il burden sharing e' uno strumento espressamente previsto dalla convenzione
di Ginevra sul diritto d'asilo ma che non ha mai trovato una chiara
definizione giuridica. Nella sua accezione piu' restrittiva riguarda la
necessita' di suddividere gli oneri finanziari. In quella piu' liberale
riguarda invece la possibilita' per gli Stati di suddividersi il numero dei
richiedenti asilo. Tanto piu' che molti asilanti, soprattutto africani,
raggiungono l'Europa attraverso le coste meridionali ma in realta'
vorrebbero andare a vivere in un altro paese europeo, dove magari hanno gia'
la propria famiglia. Il ministro dell'Interno Roberto Maroni, e' vero, ne ha
parlato recentemente. Ma in modo furbesco: le domande vengano processate in
Libia - ha detto - e poi le persone suddivise nei vari stati dell'Unione.
L'esternalizzazione, insomma, tiene sempre banco. L'interpretazione corretta
del burden sharing, invece, prevede che sia permesso a chi fugge da guerre e
persecuzioni di raggiungere l'Europa e che qui - con tutte le garanzie
previste - siano analizzate le richieste di protezione.
Il motivo per cui l'Italia non ha mai fatto la voce grossa su questo punto
e' molto semplice: prima del 2007 il nostro paese e' stato sempre "in
debito" con il resto dell'Europa. Ma ora le cose stanno cambiando. I paesi
dell'Europa del sud nel 2008 hanno conosciuto un incremento delle richieste
di asilo del 20%. L'Italia e' al quarto posto tra i dieci paesi che
raccolgono il maggior numero di asilanti, classifica capeggiata dagli Stati
Uniti. Nel 2005 eravamo all'undicesimo. Ormai siamo "inseguiti" da
Inghilterra, Germania, Svezia e Norvegia. L'Italia ha iniziato a fare
seriamente i conti con il diritto di asilo dopo la firma del regolamento
Dublino II nel 2003 - voluto dagli Stati centro e nord europei stanchi
dell'atteggiamento degli Stati rivieraschi abituati a vigilare
distrattamente sulle proprie frontiere interne - con il quale si stabilisce
che titolare ad esaminare la richiesta di asilo e' il primo paese di approdo
dell'asilante. Il trend e' pero' cambiato significativamente nel 2007,
quando sono state finalmente recepite le direttive europee sugli standard
minimi per la procedura di asilo. L'Italia e' diventato un paese in cui e'
possibile ottenere una protezione in tempi decenti e in cui, quindi, e'
anche possibile decidere di fermarsi. Cosi', nel 2008 l'Italia ha accolto
31.200 richiedenti asilo, di cui piu' della meta' ha ottenuto una qualche
forma di protezione. Anche l'accettazione delle domande, infatti, e' in
crescita. Dato confermato nel 2009.
L'Italia, dunque, ormai potrebbe decidere di mettersi alla testa di una
"cordata" di paesi europei meridionali portando in sede Ue una proposta che
non chieda di violare le Convenzione internazionali e di indebolire la
protezione dei rifugiati, affidandoli alle "cure" dei paesi terzi o dei
comandanti delle navi, come propone di fare il ministro Frattini. Bensi' di
accogliere chi bussa alle porte d'Europa per chiedere una protezione,
distribuendo fisicamente le persone tra i vari paesi. Ovviamente questa
proposta ne dovrebbe sottintendere un'altra: armonizzare definitivamente il
diritto d'asilo in Europa, senza limitarsi a stabilire quali siano gli
"standard minimi" come e' stato fatto finora. Si dovrebbe, inoltre, vincere
la freddezza degli Stati come la Germania che difendono a spada tratta il
regolamento Dublino II. Si tratterebbe, insomma, di un'iniziativa politica
volta a difendere l'Europa come spazio di pace, liberta' e giustizia. Che
sia una cosa fattibile, ma non affrontata nel dibattito europeo lo conferma
anche la portavoce dell'Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni
Unite in Italia, Laura Boldrini: "Sarebbe una proposta sostenibile e in
linea con le leggi vigenti. Si tratterebbe di studiare un regolamento che
definisca i criteri: numero della popolazione, Pil, e cosi' via". E, allora,
perche' ne' l'Italia ne' gli altri paesi rivieraschi come Spagna o Malta ne
parlano? "Bisognerebbe chiederlo a loro, ma credo che la questione sia di
natura politica - spiega Gianfranco Schiavone dell'Associazione studi
giuridici sull'immigrazione -, gli Stati sono piu' interessati a trovare
nuove procedure che permettano di esaminare le domande in paesi terzi sicuri
cosi' da accogliere soltanto i rifugiati senza doversi occupare delle
espulsioni di chi non riceve protezione. Il burden sharing e' uno strumento
interessante, ed e' singolare che non se ne parli. Il dibattito andrebbe
aperto".

5. RIFLESSIONE. GIULIANO BATTISTON INTERVISTA NAWAL AL SAADAWI
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 16 maggio 2009 col titolo "Dissidente per
principio. La letteratura come istinto e disobbedienza" e il sommario "Chi
scrive ha una doppia responsabilita', verso di se' e verso gli altri.
L'analisi critica e la liberazione della propria creativita', per l'autrice
egiziana Nawal Al Saadawi ospite della ventiduesima Fiera del libro di
Torino, sono il primo passo verso il riconoscimento dell'altro"]

Prima ancora che nel 1944, a soli tredici anni, scrivesse il suo romanzo
d'esordio, Memorie di una bambina di nome Soad, pubblicato molti anni dopo,
l'egiziana Nawal Al Saadawi era solita indirizzare delle lettere a Dio,
chiedendogli che concedesse a suo fratello il doppio dei diritti, rispetto a
lei, "soltanto perche' lui era maschio". Fu in quegli anni - racconta oggi -
che la futura autrice di Firdaus (Giunti, nuova edizione 2007) divenne
femminista, e che il suo femminismo si combino' con la riluttanza ad
accettare i precetti di un Dio che "mi aveva creato essere umano soltanto a
meta'", come spiega in uno dei suoi testi autobiografici, Una figlia di
Iside (Nutrimenti, 2002).
Proprio combinando il femminismo, inteso come "rifiuto di ogni forma di
ingiustizia, in cielo e in terra, nella famiglia o nello Stato", e una
disobbedienza precocemente maturata ("ero molto disobbediente, lo sono stata
fin da quando ero una bambina", racconta in Dissidenza e scrittura, Spirali,
2008), e' nato il percorso di una delle intellettuali del mondo arabo piu'
influenti e ascoltate. Ma anche una delle piu' temute da quanti - governi e
autorita' religiose di ogni credo - mal sopportano il coraggio di una donna,
medico, psichiatra, scrittrice e attivista, che alle denunce contro le
mutilazioni genitali continua ad affiancare la critica alla "clitoridectomia
piscologica imposta dal sistema patriarcale e classista" perche', sostiene,
"amputare l'immaginazione non e' meno pericoloso che amputare parti del
corpo".
Un sistema che ha sempre cercato di ostacolarla, censurando i suoi libri,
chiudendo le riviste da lei fondate, incarcerandola, includendo il suo nome
nelle liste di morte dei fondamentalisti, portandola in tribunale con
l'accusa di apostasia. Finora i tentativi delle autorita'
politico-religiose, ciecamente obbedienti alla legge divina o terrestre, non
hanno pero' fatto altro che accrescere l'autorevolezza di questa donna
tenace, obbediente soltanto all'istinto della bambina che era un tempo,
quando comincio' a disobbedire.
Abbiamo incontrato Nawal Al Saadawi alla Fiera del libro di Torino, dove
oggi alle 15 terra' una lezione su "Creativita' e dissidenza", affiancata da
Isabella Camera d'Afflitto.
*
- Giuliano Battiston: Nel suo ultimo romanzo tradotto in italiano, L'amore
ai tempi del petrolio (Il Sirente, 2009), il Re stabilisce che "ogni donna
sorpresa in possesso di carta e penna verra' processata". Lei usa carta e
penna da quando era bambina, e sin da allora viene "processata". Qual e'
stata la sua "colpa" principale? Disobbedire a quanti rivendicano il
possesso di una verita' esclusiva e inalterabile?
- Nawal Al Saadawi: Non mi e' mai piaciuto il verbo obbedire, e cio' che
esso significa. L'obbedienza infatti rimanda immediatamente ai precetti
politici o religiosi: si deve obbedire alle autorita', a chi detiene il
potere, al sistema politico nel suo complesso, a Dio. Inoltre, l'obbedienza
contraddice inevitabilmente la creativita', perche' essere creativi
significa innanzitutto disobbedire ed esercitare le armi della critica. Come
lei sapra', dal 1993 tengo negli Stati Uniti e non solo dei corsi
universitari dedicati a "Dissidenza e creativita'", nei quali cerco di
sollecitare i miei studenti a sviluppare una mentalita' critica, un
atteggiamento sospettoso verso ogni autorita', che sia Dio, il capo di Stato
o chiunque altro presuma di possedere una verita' inalterabile. L'analisi
critica e' il primo passo verso la dissidenza e la creativita', che sono due
facce della stessa medaglia.
*
- Giuliano Battiston: Lei sostiene che la creativita' sia legata alla
"capacita' di disfare cio' che l'educazione formale e informale ci ha fatto
a partire dalla fanciullezza". Vuol dire che non ci puo' essere vera
creativita' - e dissidenza - se non si supera quella che definisce come
"frammentazione della conoscenza"?
- Nawal Al Saadawi: Le porto il mio esempio: ho studiato medicina, ma una
medicina impermeabile al resto delle discipline, separata dalla filosofia,
dalla religione, dalla politica, dall'economia. Cosi', sono diventata un
medico ignorante di cio' che mi accadeva intorno, proprio perche' educata
secondo i criteri della frammentazione della conoscenza. La creativita',
invece, e' lo sforzo volto a disfare questa frammentazione e a riconnettere
tutti gli ambiti separati. Che ci sia bisogno di farlo lo dimostrano i
fatti: molte delle malattie derivano dalla poverta', e la poverta' e' una
questione essenzialmente politica, perche' nasce dalle scelte politiche che
rendono alcuni poveri e altri ricchi. Per poter essere dei buoni dottori,
percio', occorre "mettere insieme" le discipline in genere distinte; e per
poter essere degli scrittori creativi occorre superare la falsa distinzione
tra fiction e non fiction, tra narrativa e saggistica o autobiografia.
*
- Giuliano Battiston: La cornice tematica della Fiera del libro di
quest'anno e' il rapporto "Io, gli altri". In un saggio del 2001, lei scrive
che la creativita' "e' la capacita' di essere se stessi a dispetto di ogni
pressione", ma anche "di riuscire a guardare se stessi in relazione agli
altri". Intende dire che non si puo' ottenere liberta' personale e fiducia
in se stessi senza responsabilita' verso gli altri, senza una relazione
se'/altri che non sia compromessa dalla tentazione di dominare l'altro?
- Nawal Al Saadawi: Infatti, e' proprio cosi'. Sono sempre stata convinta
che liberta' e responsabilita' siano legate in modo indissolubile, che l'una
non si possa dare senza l'altra. Io, per esempio, scrivo per me stessa, per
il piacere che ne ricavo, per il bisogno di affermare la mia liberta' e per
dare forma alla mia creativita', ma tengo sempre in mente la responsabilita'
della pubblicazione, tengo in contro gli altri, i miei eventuali
interlocutori, coloro ai quali destino idealmente il mio lavoro. Non si
tratta di una scrittura chiusa in se stessa, ma di una scrittura che si
apre, costitutivamente, agli altri. La creativita' abolisce la divisione tra
se' e gli altri, e insieme tutte le dicotomie che abbiamo ereditato dal
periodo schiavistico e che il sistema patriarcale classista riproduce:
divino/umano, diavolo/dio, paradiso/terra, corpo/spirito, uomo/donna,
conscio/inconscio, etc. Grazie alla scrittura, queste dicotomie vengono
ricomposte nell'individuo, che a sua volta viene ricollocato all'interno
della societa', nella relazione con gli altri. Da qui nasce la doppia
responsabilita' di chi scrive: verso se' e verso gli altri.
*
- Giuliano Battiston: "Sono diventata una femminista quand'ero bambina,
all'eta' di sette anni", ha raccontato una volta. Ci spiega cosa intende
quando sostiene che oggi le donne debbano affrontare "un doppio assalto",
quello del "consumismo del libero mercato" da una parte e quello del
"fondamentalismo religioso e politico" dall'altra?
- Nawal Al Saadawi: Dicendo che sono diventata femminista a otto anni
intendo dire che ogni bambino e' naturalmente creativo, ed e' consapevole
delle ingiustizie che patisce. Quando sono oppressi o limitati, i bambini si
rivoltano, disobbediscono, oppure, semplicemente, hanno paura. Ecco, per me
femminismo significa rifiutare di avere paura, rifiutare ogni forma di
ingiustizia, politica, religiosa, di classe, di genere. Per quanto riguarda
il "doppio assalto", basta pensare alle donne irachene, a quelle afghane,
alle palestinesi, che oggi combattono due battaglie: contro l'occupazione
americana (o israeliana), legata al consumismo degli Stati Uniti e allo
sfruttamento del petrolio, e quella contro il fondamentalismo religioso,
incoraggiato proprio dagli americani. Il sistema capitalista patriarcale,
classista e razzista, non solo si basa sull'ingiustizia, riproducendola, ma
ha bisogno di Dio e della religione per legittimarla. Succede in Iraq, ma
succede in Egitto, un paese economicamente colonizzato, in Afghanistan e in
Palestina. Per questo, contesto chi parla di post-colonialismo: viviamo
invece in un periodo di neocolonialismo.
*
- Giuliano Battiston: In un saggio del 2002 su Esilio e resistenza scrive:
"Da quando sono nata ho sentito di essere in esilio". Per poi aggiungere:
"la scrittura mi ha aiutata a combattere l'esilio e la sensazione di essere
'aliena'". Crede che la scrittura sia uno strumento con cui possiamo abitare
la nostra "casa esistenziale", anche se siamo lontani da quella "materiale"?
- Nawal Al Saadawi: Cos'e' la casa? Dov'e' che ci sentiamo propriamente a
casa? Non certo in una particolare porzione di terra, non, necessariamente,
nel luogo in cui siamo nati. Siamo a casa quando siamo nel posto in cui
troviamo giustizia, umanita', liberta' e amore, e dove troviamo persone che
sentono il bisogno di queste cose e che si battono per ottenerle. Se siamo
sul "suolo patrio", ma siamo minacciati, oppressi, imprigionati perche' ci
esprimiamo liberamente, siamo forse a casa? Mentre se siamo lontani dal
luogo dove siamo nati, ma ci sentiamo in sintonia con le persone intorno a
noi, come mi capita con i miei studenti americani, allora possiamo dirci a
casa. La creativita' ha il potere straordinario di sospendere l'esilio,
perfino di abolirlo. Ricordo che quando ero in prigione e riuscivo a
scrivere, sentivo di essere altrove. Grazie alla scrittura ero libera.
Nonostante fossi tra quattro mura.

6. RIFLESSIONE. DONATELLA BASSANESI: INTORNO A SIMONE WEIL
[Dal sito della Libera universita' delle donne di Milano
(www.universitadelledonne.it) riprendiamo il seguente intervento che
risponde a cinque domande su Simone Weil poste da Gianna Beltrami: "esiste
un nucleo del suo pensiero? qual e' il senso della vita per Simone Weil?
qual e' il senso della scrittura e perche' e' pericolosa? perche' la
conoscenza si puo' cercare solo nella sofferenza? perche' se il male e'
indifferenza e superficialita' puo' assimilarsi all'oppressione e al
potere?"]

Il nucleo del pensiero di Simone Weil a me pare stia nel considerare la
possibilita' di pensare la trascendenza come un altro mondo possibile in
questo mondo, nel segnare dunque una distanza, tra l'esistente e il
realmente possibile, essere tra l'uno e l'altro come movimento che rende
altro.
Il suo senso della vita credo stia nel cercare di vivere bene e di morire
bene (nel legame vita-morte, del nascere per morire), e' il senso della
bellezza (e' l'influenza della civilta' greca e mediterranea).
Il senso della scrittura credo sia interno ad ogni scrittura (ciascuna ha il
proprio senso che puo' anche mutare nel tempo perche' ha internamente delle
variabili), il suo pericolo credo stia in cio' che nasconde, che non svela
(che e' poi la verita').
La conoscenza intesa come ricerca di cio' che e' nascosto (dietro ai
mascheramenti, alle illusioni...), perche' smonta le ragioni con le quali si
alimentano gli inganni, con cui si giustificano i privilegi, porta
sofferenza perche' mette in disaccordo con le convenzioni, i luoghi comuni,
il consenso.
Il male come indifferenza penso stia in una indiretta complicita', e'
lasciare che il male avvenga senza in qualche modo intervenire, e' girarsi
dall'altra parte per non sentirsi responsabile di un mancato intervento per
impedire l'attuarsi del male. In definitiva e' complicita' non solo con il
male ma con il potere che lo mette in atto.

7. RIFLESSIONE. IDA DOMINIJANNI: IMPARARE DI NUOVO AD AMARE
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 19 maggio 2009 col titolo "Per finire ci
vuole coraggio"]

Circola on line (lo si puo' leggere in www.donnealtri.it) un testo scritto
da un gruppo di femministe (Fulvia Bandoli, Maria Luisa Boccia, Elettra
Deiana, Laura Gallucci, Letizia Paolozzi, Isabella Peretti, Bianca
Pomeranzi, Bia Sarasini, Rosetta Stella, Stefania Vulterini) che si intitola
"Il coraggio di finire" e sara' discusso domenica prossima alla Casa delle
donne di Roma. E' un testo che incrocia la questione della fine della
sinistra e della politica che abbiamo conosciuto nel secolo scorso con
quella della politica della fine, ovvero con il modo in cui di questi tempi
viene dibattuto il problema della fine della vita. A chi legge sembrera'
forse un incrocio improprio o azzardato, ma invece e' del tutto proprio: la
coincidenza fra un certo stato terminale della politica "classica" e una
biopolitica che sempre piu' frequentemente finisce di occuparsi, piu' che
della vita, della morte (guerra, testamento biologico, eutanasia etc.) non
dev'essere casuale, o puo' comunque essere sintomatica.
Come un sintomo della crisi della politica le autrici leggono infatti il
dibattito sul caso Englaro: sia la risposta della destra - tenere in vita
Eluana a tutti i costi - sia quella della sinistra - l'invocazione di una
nuova legge a tutti i costi - mascherano una resistenza a confrontarsi con i
problemi di senso che le tecnologie biomediche di allungamento della vita e
di sospensione della morte comportano. E che richiederebbero un salto di
pensiero sull'esperienza della fine e sulle modalita' del congedo e del
lutto nelle nostre societa'.
Ma a sinistra il sintomo vale doppio, perche' evoca la difficolta' della
sinistra a fare i conti con l'eventualita' della "propria" fine, ovvero con
la possibilita' di nominare come "fine" quello stato che da troppi anni
continua invece a essere nominato, senza piu' pregnanza, come interminabile
"crisi".
Il testo ha l'indubbio merito di mettere coraggiosamente a tema questa
eventualita', chiamando tutti, donne e uomini, a discuterne sulla base della
pratica femminista del "partire da se'". Raccontano le autrici che il loro
stesso gruppo, sulla questione della crisi della sinistra "girava a vuoto"
finche' non l'ha intercettata con la riflessione sull'esperienza personale
della fine: l'esperienza del lutto per la morte di persone care o per una
separazione o per la fine di un progetto, l'ansia per la fine della
giovinezza, per l'invecchiamento e per la morte. E come sempre nel pensiero
femminista, il sapere del corpo e dell'esperienza fa luce sulla politica.
Rivelando ad esempio le segrete simmetrie con cui "la crisi della politica
mima le crisi del corpo fisico" e della psiche individuale: bulimia (di
parole) e anoressia (disseccamento delle radici e del senso), cupio dissolvi
(ripetizione degli errori) e accanimento terapeutico (nel tenere in vita
sigle e organizzazioni esaurite); depressione e prometeismo. Nevrosi che
segnalano che il problema, venti anni dopo il grande terremoto dell'89, e'
ancora e sempre lo stesso: l'incapacita' della sinistra di elaborare il
lutto delle proprie perdite, rimuovendolo e rinviandolo con una ritualita'
ripetitiva e ossessiva che non cessa di "fare e disfare partiti, coalizioni
e sistemi elettorali, chiudere e aprire fasi e cicli, invocare leader,
proclamare 'nuovi inizi' senza mai fermarsi a prendere atto di cio' che e'
davvero finito, morto senza nemmeno degna sepoltura". Ma cio' che muore
senza sepoltura, si sa, si aggira spettralmente nel presente, lo ingombra,
ne impedisce l'apertura su nuovi eventi e nuovi avventi. Senza una
consapevolezza e un pensiero della fine, la sinistra si sottrae
contemporaneamente la possibilita' di lavorare sulla perdita, ossia di
mettere a fuoco "di cosa patisce la mancanza, di cosa ha bisogno e di cosa
invece puo' fare a meno", e la possibilita' di fare spazio a nuovi desideri,
passioni, urgenze, eventi e avventi.
"Non vediamo modo di ricominciare se non si ha il coraggio di finire",
concludono le autrici e non si puo' che essere d'accordo.
Con tre aggiunte, come contributo al dibattito che esse stesse domandano. La
prima e' questa, che anche l'invocazione dell'elaborazione del lutto nella
sinistra post-'89 - tema grande e grandemente messo a tema nel ventennio:
due nomi per tutti, Derrida e Wendy Brown - rischia di restare
un'invocazione o, peggio, un dover essere autoreferenziale, se non comincia
ad essere accompagnata dalla stesura del catalogo di che cosa e' perduto o
finito, che cosa permane di irrinunciabile, che cosa ingombra il campo in
forma di "attaccamento appassionato" (Brown) a un'identita' fittizia e in
cambio di quali rendite di posizione. La seconda e' che nella stesura di
questo catalogo l'asimmetria femminista rispetto alla sinistra vale non solo
a livello di metodo e di pratica, come nel testo e' fatta valere, ma anche
come dispiegamento gia' in atto di una politica non ammalata della stessa
malinconia della sinistra, che invece nel testo sfuma. E infine:
l'elaborazione del lutto e' una pratica riflessiva, ma non e' solo una
pratica riflessiva. Ci sono resistenze che la impediscono, ma anche atti,
salti, pulsioni che la aiutano. E forse, cito ancora Wendy Brown, quello che
alla sinistra dovrebbe proprio capitare e' "imparare di nuovo ad amare".

8. RIFLESSIONE. TRE POSTILLE AL TESTO CHE PRECEDE

La prima: la nonviolenza e' la scelta con cui la sinistra rinasce. Dopo
Auschwitz e dopo Hiroshima, dopo i lager e dopo i gulag, nella tragedia
ecologica e in quella del rapporto nord-sud, mentre il patriarcato
militarista e razzista pianifica la distruzione del mondo prima di
estinguersi, ebbene, solo la nonviolenza puo' salvare l'umanita'. La scelta
giuriscostituente della nonviolenza, la scelta della nonviolenza come unica
politica possibile e necessaria per il movimento delle oppresse e degli
oppressi che vuole liberare tutte e tutti, salvare la civilta', impedire la
distruzione del mondo.
*
La seconda, e diciamolo senza giri di parole: l'unica politica di sinistra
e' quella che si oppone all'uccisione delle persone, quella che salva le
vite. Chi vota a favore della guerra (come tutti i partiti della ex-sinistra
al tempo del governo Prodi), chi plaude all'uccisione di una persona (come
tanta parte dell'intellighenzia che mesi fa ha perso il lume della ragione e
il senso di umanita'), ha gia' ceduto al fascismo.
*
La terza: non e' vero che la sinistra e' in crisi o e' moribonda; cadaveri
che camminano sono le burocrazie e i privilegiati parassitari che si sono
prostituiti al disordine costituito, alla barbarie assassina. La sinistra
rinasce ogni giorno nella coscienza e nelle lotte di chi continua a
rivendicare la dignita' umana di ogni essere umano, la solidarieta' che
tutte e tutti raggiunte, la liberazione dell'umanita' intera, il principio
responsabilita'.
Chiamiamo la sinistra costituita dal movimento reale delle oppresse e degli
oppressi per il riconoscimento di tutti i diritti umani a tutti gli esseri
umani e per la cura della biosfera casa comune con questo semplice nome:
nonviolenza in cammino.

9. MONDO. MARINELLA CORREGGIA: DISASTRI
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 19 maggio 2009 col titolo "Chi resistera'
ai disastri?"]

Nel 2050 la popolazione urbana dell'India sara' di 500 milioni di persone.
Come vivranno ad esempio a Mumbai e Calcutta, che sorgono in aree soggette a
disastri e dove le condizioni abitative sono gia' da tempo impressionanti?
Se lo chiede lo studio "Global Assessment Report on Disaster Risk
Reduction", considerato lo sforzo piu' ambizioso finora computo dalle
Nazioni Unite per confrontare i dati sulle tipologie e la portata dei
disastri con la distribuzione della popolazione e i trend economici (dalla
crescita impetuosa allo stallo assoluto). Paragonando l'effetto dei cicloni
nelle Filippine e in Giappone, si riscontra che nel secondo paese il numero
di persone esposte a questo rischio e' maggiore, eppure la perdita di vite
umane dovuta a simili eventi e' 17 volte inferiore a quella registrata nelle
Filippine.
Nella vicina e pur diversissima Cina, una crescita economica a rompicollo a
partire dal 1990 ha spostato decine di milioni di persone sulle coste
orientali: un'area regolarmente colpita da alluvioni e cicloni. Il paese non
ha ancora sviluppato i meccanismi istituzionali necessari a ridurre i
relativi rischi. Al contrario, in Myanmar sarebbe stata la mancanza assoluta
di sviluppo ad accrescere il numero di vittime del ciclone Nargis, un anno
fa: le persone non furono uccise dai crolli di scuole mal costruite ma dalla
mancanza di scuole e altri edifici in muratura utilizzabili come rifugio. In
realta', l'esempio del Bangladesh mostra come anche con poche risorse - e
dunque a prescindere dalla crescita generale delle infrastrutture - un paese
possa investire in opere specifiche, come i rifugi anticiclone che da anni
danno buona prova di se' (per non dire dell'efficacissimo e conosciutissimo
sistema di allerta a Cuba, che ad avere un minimo di saggezza i governanti
di tutto il mondo dovrebbero copiare). Nel caso dell'Africa sub-sahariana,
con la sua agricoltura dipendente dalle piogge, in tempi di crisi climatica
cresce la tragedia della siccita', ma il suo impatto e' accresciuto
dall'urbanizzazione su terre marginali in un habitat fatiscente.
Quasi a contrapporsi allo studio dell'Onu, un'altra ricerca, "The View from
Frontline", della Rete globale delle organizzazioni della societa' civile
per la riduzione dei disastri (sara' presentata a giugno alla conferenza
internazionale sui disastri ma e' stata anticipata dal "New York Times"), si
basa su molte interviste condotte in comunita' urbane e rurali vulnerabili,
protagoniste di modi efficaci di resistere e ridurre i danni. Incoraggiante.
Ma non basta affatto. Occorrono cambiamenti sistemici nelle politiche dei
governi e delle istituzioni internazionali. Un esempio? Certo l'educazione
delle comunita' e' essenziale, ma non e' un po' ridicolo distribuire guide
sul rischio di disastri in scuole fatiscenti che potrebbero crollare sulle
teste degli studenti?
E poi nessuna saggia opera locale potra' granche' contro gli effetti del
riscaldamento globale del clima. Il Bangladesh, ad esempio, avra' la scelta
fra la scomparsa delle sue terre per l'aumento del livello dei mari e la
perdita dell'acqua dolce dei fiumi a causa dello scioglimento - a ritmi
velocissimi - dei ghiacciai dell'Himalaya, che lascerebbe a secco in pochi
decenni un miliardo di persone a valle ora nutrite dai fiumi Giallo,
Yangtze, Salween, Indo, Gange e Brahmaputra. Se ne e' parlato nei giorni
scorsi all'Universita' di San Diego nell'incontro internazionale "Ice, Snow
and Water" (convegni e studi sul caos climatico si intensificano proprio
come il problema: sono forse un modo per illudersi e illudere che si sta
facendo qualcosa?).

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NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE
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Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
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Numero 250 del 21 maggio 2009

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