Minime. 830



NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 830 del 24 maggio 2009

Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca
per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Sommario di questo numero:
1. Una lettera aperta al Presidente della Repubblica
2. Mimmo Battaglia: Accoglienza
3. Marinella Correggia: Clima e giustizia globale
4. Il 5 per mille al Movimento Nonviolento
5. Alcuni estratti da "Un giorno o l'altro" di Franco Fortini (parte seconda
e conclusiva)
6. La "Carta" del Movimento Nonviolento
7. Per saperne di piu'

1. REPETITA IUVANT. UNA LETTERA APERTA AL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA

Lettera aperta al Presidente della Repubblica affinche' non ratifichi le
incostituzionali e criminali misure razziste contenute nel cosiddetto "ddl
sicurezza"
Signor Presidente della Repubblica,
qualora dopo la Camera dei Deputati anche il Senato della Repubblica dovesse
approvare le misure razziste ed incostituzionali contenute nel cosiddetto
"ddl sicurezza", con la presente la preghiamo di non ratificare lo
scellerato tentativo di introdurre nel nostro paese il regime dell'apartheid
e di legalizzare lo squadrismo.
La preghiamo di voler adempiere rigorosamente al suo ruolo istituzionale, ed
in tal veste respingere il protervo e barbaro tentativo governativo di
violare la legalita' costituzionale per imporre norme razziste, criminali e
criminogene.
Sia difensore e garante della Costituzione della Repubblica Italiana, e
quindi della legalita' democratica, della civilta' giuridica, dei diritti
umani.
Respinga il razzismo, crimine contro l'umanita'.
Distinti saluti,
Il "Centro di ricerca per la pace" di Viterbo
Viterbo, 15 maggio 2009

2. UNA SOLA UMANITA'. MIMMO BATTAGLIA: ACCOGLIENZA
[Dal sito www.progettouomo.net col titolo "Immigrazione. L'ignota bellezza
del diverso..." e il sommario "La riflessione del presidente della
Federazione italiana comunita' terapeutiche"]

La Federazione italiana comunita' terapeutiche, impegnata da sempre
nell'accoglienza, nell'incontro con l'altro, con il diverso, con l'ignota
bellezza che si nasconde dietro alla diffidenza verso l'estraneo, non puo',
in questi giorni, non interrogarsi sull'atteggiamento che l'Italia sta
tenendo nei confronti delle navi cariche di umanita' disperata in partenza
dalle coste nordafricane. Io, figlio di emigranti, non posso non chiedermi:
siamo stati fermati noi quando nei primi anni del '900 siamo partiti per le
Americhe? Sarebbe stato impossibile: nessuna volonta' politica, nessuna
legge, nessuna punizione, nessun rigore avrebbe potuto chiudere le porte
alla speranza di una vita migliore, alla necessita' di sopravvivere. Ed ora
che siamo dall'altra parte del benessere, possiamo chiudere le nostre lunghe
coste, 800 km solo in Calabria, a barconi pieni di uomini, di donne, di
bambini disperati, spinti dalla miseria, dai bisogni piu' profondi e
primari, dalla speranza di sopravvivere? Davvero crediamo di poter fermare
con la legge un processo che ha cause cosi' profonde, radicato nell'istinto
di sopravvivenza?
Quale governo, quale politico si prendera' la responsabilita' di bombardare
le navi in arrivo, dal momento che solo un'azione militare e cruenta
potrebbe fermare la fame di vita? In cuor mio sono convinto che nessuno
arrivera' a tanto...
Inoltre, parlando di immigrazione, non sarei fedele alla nostra filosofia di
base se tralasciassi di ricordare che dietro a questo concetto,  ci sono dei
volti, delle storie, delle paure: delle persone e delle speranze. Sono nomi,
occhi, cuori, carne, ossa, anime. Sono dolore e speranza. L'oltraggio di un
passato incapace di garantire un futuro; la speranza disperata di un
presente che possa restituire il futuro rubato.
E' importante parlare di persone e non di concetti sociologici, perche' le
parole assumono un significato totalmente diverso se pronunciate in luoghi e
contesti differenti: diritti, legalita', giustizia, sicurezza,
clandestinita'... significano cose diversissime se pronunciate nelle nostre
aule istituzionali, nei nostri salotti, nei microfoni delle sale convegni o
piuttosto nel silenzio, nel buio e nel gelo di una notte in alto mare, se
pronunciati da sazi o con lo stomaco vuoto, da liberi o da perseguitati.
Perche' le parole diventano l'arma di difesa di una democrazia in panne,
diventano arma per tenere fuori le difficolta' e le differenze, diventano
mura. Le parole pronunciate da chi e' sazio, da chi e' forte della propria
sazieta' ed opulenza perdono la loro dignita' per divenire offese. Le stesse
parole a cui oggi, in questi mesi, nei nostri centri, stiamo cercando di
dare un senso diverso, piu' profondo, piu' reale. Piu' umano.
Mi chiedo allora: potremo mai accogliere tutti? Anche questa domanda ha
diritto di cittadinanza. E la risposta ad una domanda complessa non puo' in
alcun modo essere semplice ed immediata. Per impedire gli imbarchi, prima
che gli approdi, nelle condizioni disumane che abbiamo conosciuto, su
relitti del mare che troppo spesso condannano a morte, la soluzione e'
ragionare in termini di cause e non di sintomi, la soluzione e' lavorare per
fare rifiorire l'Africa e le zone sottosviluppate di questo mondo. Zone
sfruttate ed abbandonate che possono ancora diventare terre pronte ad
accogliere nuovi segni di civilta'. Ma questi nuovi segni non si trovano
nelle donazioni di riso transgenico, ma con politiche serie di sviluppo ed
innanzitutto di incontro e di giustizia, con l'abbattimento del debito
estero verso i paesi occidentali. Esiste una risposta civile all'incivilta'
della miseria, che e' quella della giustizia sociale, non piu' costruita
solo all'interno delle nazioni ma in una scala piu' grande, unica scala
possibile in un mondo globalizzato.
Lo stesso mondo in cui, paradossalmente, le merci hanno diritto di
spostamento mentre gli uomini, merci di scarto, non hanno tale diritto. Un
problema che e' del mondo lo si puo' risolvere solo globalmente,
collettivamente, schierandosi concretamente non dalla parte delle merci ma
degli uomini e delle donne, di donne e uomini dalla pelle scura e il sorriso
spento.
La Federazione italiana comunita' terapeutiche, che accoglie nelle sue
strutture tante di queste persone, che ne conosce i talenti, ancora una
volta sceglie la parte degli impoveriti, proponendo soluzioni diverse e
complesse, concrete ed impegnative, piuttosto che accontentarsi di quelle
facili del "no, non si puo' fare". Soluzioni di riflessione e di scelta, di
amore verso la propria terra, considerata un dono da custodire e condividere
piuttosto che un possesso. Soluzioni possibili ed urgenti in cui il mondo
politico, i cattolici ed i credenti di ogni fede devono necessariamente
schierarsi, con la consapevolezza che lo schierarsi sta sempre dalla parte
dell'accoglienza, della giustizia, dell'amore.
L'umanita' ha bisogno di umanita'. Allora, dobbiamo aggrapparci ai valori
universali. A questi dobbiamo affidarci se vogliamo davvero chiederci "se
questo e' un uomo"; se vogliamo capire come agire per fare in modo che torni
ad essere uomo pienamente e, allo stesso tempo, dimostrare a noi stessi ed
al mondo che vogliamo continuare ad essere chiamati uomini anche noi.
Ho davanti a me un pagina di Martin Luther King: "Ho un sogno: che un giorno
i miei figli non verranno giudicati per il colore della loro pelle, ma per
il contenuto del loro carattere. Ho il sogno che un giorno i miei figli
siederanno a mensa con tutti gli altri...". Mi fermo qui. Perche' fa male.

3. MONDO. MARINELLA CORREGGIA: CLIMA E GIUSTIZIA GLOBALE
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 21 maggio 2009 col titolo "New
Internationalist"]

Il mensile "New Internationalist" (Ni), realizzato da una cooperativa
editoriale, ha come sottotitolo "Persone, idee e azioni nell'impegno per la
giustizia globale". Un nuovo internazionalismo, radicale e pratico. Il
numero quasi monografico intitolato "Climate justice" (giustizia climatica)
e' uno strumento di conoscenza e azione utile e chiaro (per acquistarlo:
www.newint.org).
L'analisi del "Ni" parte dalle tre ingiustizie collegate al caos climatico:
il riscaldamento globale ricade e ricadra' in primo luogo sulla testa dei
piu' poveri; i piu' colpiti sono e saranno soprattutto quelli che non hanno
provocato il fenomeno e che non possono fare granche' per fermarlo; infine,
i responsabili (irresponsabili), paesi o imprese che siano, non pagano.
Invece, i principi della giustizia climatica sono quattro. Primo. I ricchi
(paesi e gruppi sociali) si assumono le proprie responsabilita', ovvero 90%
di tagli alle proprie emissioni al piu' presto e comunque entro il 2050,
fine di sovrapproduzione e iperconsumo, sostegno finanziario a titolo di
restituzione del debito ecologico al Sud del mondo che dovra' affrontare
anche enormi costi di adattamento. Secondo. Lasciare il piu' possibile i
combustibili fossili sottoterra bloccando alla fonte le emissioni, e
cambiando dunque i modelli energetici, produttivi e sociali. Terzo. Eguale
accesso alle risorse del pianeta: terra, energia, acqua, foreste. Quarto.
Operare la transizione verso una societa' a emissioni zero o quasi che
protegga diritti dei popoli, lavoro e benessere di tutti.
Molte invece le false soluzioni che il "Ni" smaschera. Oltre alle costose,
elitarie e non immediatamente attuabili opere di "geoingegneria", e alla
"carbon tax" che ha dato risultati limitati, c'e' l'iniquita' del meccanismo
di Kyoto ("Grandfathering of Kyoto Targets"), per il quale le ridottissime
riduzioni delle emissioni erano previste a partire dai singoli livelli
nazionali del 1990: un modo per assicurare la perpetuazione della
disuguaglianza.
No anche al solito mercato delle indulgenze: l'"Emission Trading", mercato
dei diritti di emissione che il "Ni" propone a tutti gli attivisti di
screditare e che purtroppo potrebbe essere la via principale per i ricchi
paesi industrializzati di arrivare a rispettare gli eventuali obblighi di
riduzione senza dover rivoluzione l'economia e la vita. Il che potrebbe
stravolgere il meccanismo "Redd" (Riduzione delle emissioni dalla
deforestazione e dal degrado delle foreste) come ha fatto con il "Cdm"
(Meccanismo per lo sviluppo pulito).
Un sistema equo deve invece essere basato sulle emissioni pro capite (la
"Contrazione e Convergenza" del Global Commons Institute), conteggiando le
responsabilita' storiche (debito ecologico) e la capacita' di pagare. Il
G77 - in realta' 130 un po' confusi paesi in via di sviluppo - e alcune
associazioni hanno parlato di Greenhouse Development Rights, meccanismo per
il quale la responsabilita' dell'azione climatica sarebbe assegnata ai paesi
anche sulla base della percentuale di cittadini miseri o ricchi che essi
hanno; cio' assicurerebbe che le ormai estese elite del Sud non siano
escluse dagli oneri.
I G77 hanno anche chiesto che i paesi ricchi finanzino a mo' di restituzione
un "Fondo globale per l'adattamento e la mitigazione". Una nuova proposta e'
poi il "Kyoto 2": qualunque compagnia estrattiva di combustibili fossili
dovrebbe acquistare permessi di emissione, con un tetto massimo abbassato
ogni anno. Il ricavato sarebbe gestito dall'Onu per proteggere le foreste,
pagare le misure di adattamento dei paesi poveri e fare la rivoluzione della
sostenibilita'.

4. APPELLI. IL 5 PER MILLE AL MOVIMENTO NONVIOLENTO
[Dal sito del Movimento Nonviolento (www.nonviolenti.org) riprendiamo il
seguente appello]

Anche con la prossima dichiarazione dei redditi sara' possibile
sottoscrivere un versamento al Movimento Nonviolento (associazione di
promozione sociale).
Non si tratta di versare soldi in piu', ma solo di utilizzare diversamente
soldi gia' destinati allo Stato.
Destinare il 5 per mille delle proprie tasse al Movimento Nonviolento e'
facile: basta apporre la propria firma nell'apposito spazio e scrivere il
numero di codice fiscale dell'associazione.
Il Codice Fiscale del Movimento Nonviolento da trascrivere e': 93100500235.
Sono moltissime le associazioni cui e' possibile destinare il 5 per mille.
Per molti di questi soggetti qualche centinaio di euro in piu' o in meno non
fara' nessuna differenza, mentre per il Movimento Nonviolento ogni piccola
quota sara' determinante perche' ci basiamo esclusivamente sul volontariato,
la gratuita', le donazioni.
I contributi raccolti verranno utilizzati a sostegno della attivita' del
Movimento Nonviolento e in particolare per rendere operativa la "Casa per la
Pace" di Ghilarza (Sardegna), un immobile di cui abbiamo accettato la
generosa donazione per farlo diventare un centro di iniziative per la
promozione della cultura della nonviolenza (seminari, convegni, campi
estivi, eccetera).
Vi proponiamo di sostenere il Movimento Nonviolento che da oltre
quarant'anni, con coerenza, lavora per la crescita e la diffusione della
nonviolenza. Grazie.
Il Movimento Nonviolento
*
Post scriptum: se non fate la dichiarazione in proprio, ma vi avvalete del
commercialista o di un Caf, consegnate il numero di Condice Fiscale e dite
chiaramente che volete destinare il 5 per mille al Movimento Nonviolento.
Nel 2007 le opzioni a favore del Movimento Nonviolento sono state 261
(corrispondenti a circa 8.500 euro, non ancora versati dall'Agenzia delle
Entrate) con un piccolo incremento rispetto all'anno precedente. Un grazie a
tutti quelli che hanno fatto questa scelta, e che la confermeranno.
*
Per contattare il Movimento Nonviolento: via Spagna 8, 37123 Verona, tel.
0458009803, fax: 0458009212, e-mail: redazione at nonviolenti.org, sito:
www.nonviolenti.org

5. LIBRI. ALCUNI ESTRATTI DA "UN GIORNO O L'ALTRO" DI FRANCO FORTINI (PARTE
SECONDA E CONCLUSIVA)
[Dal sito www.tecalibri.it riprendiamo i seguenti estratti dal libro di
Franco Fortini, Un giorno o l'altro, Quodlibet, Macerata 2006]

Sul "diritto alle colonne"
Quando Trombadori scandalizza Muscetta dichiarando brutalmente che se in
un'opera d'arte la "storia" non e' "giusta e vera", l'opera e' mancata, dice
una importantissima mezza-verita'. Un'opera d'arte e', insieme,
interpretazione, espressione e superamento di tutto il suo passato, della
sua preistoria fino al proprio nascere; del "mondo" cioe' in mezzo a cui
appare. Questo mondo non e' immobile, procede, ha un senso che diciamo, in
senso generalissimo, politico; e, in ogni istante e per ogni atto degli
uomini, nella rete della composizione delle forze, nel dedalo delle scelte
individuali e collettive, c'e' una e una sola verita' (mi pare lo dica anche
Lenin). Ebbene, l'opera d'arte puo' essere - nel suo ordine estetico - piu'
o meno partecipante e cooperante a quella verita'; e la sua capacita' di
sopravvivenza (posso schizzare una risposta al dilemma di Marx a proposito
dell'arte greca?) sara' proporzionale non gia' alla sua capacita' di
attingere l'eterno dallo spirito (estetica idealistica e platonica) bensi'
proporzionale alla vivacita', sopravvivenza e conservazione per entro la
storia umana di quelle successive verita', di quegli scopi che l'umanita' si
prefisse e che raggiunse, ma mai una volta per tutte. Cosi' lo Eschilo che
Marx rileggeva ogni anno nel testo greco sopravvive nella proporzione in cui
sopravvive, per entro i nuovi compiti del nostro presente, quella che
probabilmente fu la verita'-chiave del suo mondo greco ateniese:
l'educazione, la paideia, dell'individuo, dell'uomo a tutto tondo e
l'interiorizzazione della legge politica e morale; non sopravvive la
struttura religiosa del Fato, travolta dalla fine dello schiavismo,
eccetera.
Questo il senso della "ragione" di Trombadori contro Muscetta. Ma a questo
punto, con Muscetta, domando: chi giudichera' del "giusto e del vero" di
un'opera d'arte? La riprova pratica che e' decisiva per il politico e per lo
scienziato che forme potrebbe assumere per l'arte? Il consenso popolare? Una
commissione di esperti "politici"? Lasciamo andare. Non dimentichiamo che,
poi, e proprio per il suo carattere politico, un'opera d'arte puo' essere
una vera e propria critica del presente, ma di lentissima verifica, stante
il principio troppo spesso dimenticato per cui la mutazione delle
sovrastrutture non e' necessariamente contemporanea di quella delle
strutture. E poi, in questa ansia di "contenuti" non ci si avvede (penso a
quanto sembra accadere, ad esempio, in certi paesi di nuova democrazia) che
si tiene sovente in piedi la "forma" morta, non solo come tecnica ma anche
come forma tradizionale, fantoccio dell'artista anarchico-borghese, pittore
di "quadri" e poeta di lirici deliri, purche' dipinga e "canti" storie
"giuste e vere"; quando invece si tratta di smontare proprio quella forma
anarchico-borghese, commettendo, che so, illustrazioni ai primi e antologie
scolastiche (invece che "romanzi del realismo socialista", scritti con la
sintassi mentale di ottanta anni fa) ai secondi. Chi ha detto che "anche il
popolo ha diritto alle colonne"? No, il "popolo" (ossia noi tutti) non ha
diritto all'errore.
*
Da pagina 77
Socialdemocrazia e amministrazione della catastrofe [1950]
Non si capisce nulla del nostro paese e di noi se non si tiene continuamente
presente la convivenza di forme culturali remote fra loro; e di forme
produttive; di "concezioni del mondo". [...] Non si tratta di isole, ma di
intere parti del corpo nazionale. Non e' neppur arretratezza (le citta' e
cittadine e paesi, non diro' del sud, ma dell'Italia centrale: i loro
ospedali, le scuole, gli uffici pubblici); e' un particolare modo di
accettare la sovrapposizione di strati diversi; l'incapacita' a trarre delle
conseguenze dalla simultaneita' delle pratiche superstiziose con
l'evoluzione scientifica, da quella della morale formalistica in materia
sessuale con il mondo presentato dal cinema ecc. E' questo uno degli
argomenti della nostra esperienza quotidiana che conferma la classica
critica alla socialdemocrazia: senza il "salto" la quantita' non mutera' mai
la qualita'. La "modernizzazione" dell'Italia arretrata farebbe strato, non
altererebbe i rapporti sostanziali fra culture; mentre, se e' necessario
bisognera' anche, secondo il motto leninista, vincere l'arretratezza
contadina dando in mano a questa classe "l'arma intelligente costruita
dall'operaio", cioe' la macchina, non v'e' dubbio che condizione necessaria
alla effettiva capacita' dirigente della minoranza operaia e' la
qualificazione della propria "situazione" storico-culturale, il non essere
meri produttori di tecnica destinata al contadino arretrato ma anche
produttori di "ideologia"; di cultura, in una parola. Contro l'illusione
socialdemocratica e contro il meccanicismo provvidenziale, burocratico (e
catastrofico).
Questa nota e' un buon esempio di previsione errata e di come, cinque anni
dopo la fine della guerra, fosse difficilissimo immaginare la omologazione
(come la chiamera' Pasolini) che vent'anni piu' tardi sarebbe stata evidente
per tutti. Ricordo Delfino Insolera, che era ingegnere e molto attento a
quanto accadeva negli Stati Uniti, mostrare un pessimismo durissimo sulla
possibilita' di preservare alcuni caratteri essenziali dell'Italia del
passato sotto i colpi della industrializzazione e del consumismo. Allora e
per molti anni considerai quel punto di vista come una sorta di disfattismo,
molto frequente fra i materialisti a matrice positivistica, che si coniuga
facilmente con un "disperazionismo", forte o "debole", e con l'estetismo.
Nei quindici anni immediatamente successivi il ceto contadino sarebbe uscito
di scena, la "cultura operaia" si sarebbe rivelata inesistente, si sarebbero
rivelate egualmente inadeguate, nel corso degli anni Sessanta, tanto le
ipotesi (piu' internazionali che nazionali) di "accerchiamento della citta'
da parte delle campagne" quanto quella di una alterazione rivoluzionaria
degli equilibri sociali dovuta alla "fabbrica espansa".
*
Da pagina 83
Sulla Resistenza [1950]
Non e' stata data, e chissa' per quanti anni ancora non sara' data, una
interpretazione autentica della Resistenza e del 25 aprile 1945. Chissa' per
quanti anni continuera' a servire da esercizio di ipocrisia e di
patriottismo. Le mani dei compagni e dei parenti accenderanno i lumi sotto i
marmi dei paesi, mentre nelle citta' si inaugureranno ancora monumenti. Ma
nulla sara' vero finche' vivranno la falsita' e l'ingiustizia che tutti gli
uomini della Resistenza, anche quelli che non portavano fazzoletti rossi,
volevano uccidere con i fascisti e i tedeschi. Gli avversari stupiscono o
s'indignano che i partiti rivoluzionari abbiano, come loro dicono,
"monopolizzata" la Resistenza; ma che cosa ne avrebbero fatto, essi? Che
interpretazione ne avrebbero dato? Che senso avrebbero potuto proporre alla
guerra civile? Perche' guerra civile fu, e non solo guerra nazionale. Guerra
di scelte politiche, e percio' anche di classe. Non soltanto di bandiera.
Ecco perche' oggi, di quanti episodi furono fra l'otto settembre e il
venticinque aprile, quello che si dovrebbe meditare e' forse il piu'
sgradevole degli incerti: via Rasella. Qualcuno ha detto, a proposito degli
intellettuali che esaltavano il combattimento, ch'essi sono quasi sempre
altrove, quando taluno preme un grilletto. Ma qui, a noi che eravamo davvero
altrove, ci era permessa la parola.
Non c'era nulla da esaltare, infatti, nessun inno da sciogliere. Parole come
eroismo, come martirio, non facevano parte del lessico mentale dei nostri
compagni di via Rasella. C'era una cosa da compiere, una cosa in se' trista
come la bisogna del soldato vero, che ama la casa e la pace sua e degli
altri, non la strage; una volta compiuta quella bisogna, e si fosse scampata
la vita, restava (come a chiunque non fugga la propria memoria) una
eternita' di minuti per interpretare, ciascuno a sua misura,
quell'avvenimento, quella esplosione in una via di Roma, ma (vorrei dire)
quel qualsiasi episodio della resistenza, quel sabotaggio, quell'imboscata,
quell'esecuzione. E la "salvezza" o la "condanna" private di quei nostri
compagni sarebbero consistite appunto nelle interpretazioni da essi medesimi
via via offerte.
Per questo oggi possiamo, senza alzar la voce, ringraziarli, tutti noi che
per fortuna o per debolezza non abbiamo sparso sangue, di aver assunto su di
se' quelle morti; di non essere stati loro, dei fucilati (tanto facile aver
pieta' per i caduti; meno facile far giustizia a chi sopravvive); di non
essersi presentati. Ringraziarli per aver allora non soltanto sfidato la
rappresaglia tedesca, ma l'opinione dei servi e le corone d'alloro della
gente perbene; per aver colpito ed essere riusciti a fuggire; per aver
dovuto portare su di se' l'orrore delle Ardeatine; per non aver concesso
nulla alla platea, alla volgarita' dei bei gesti. Ringraziarli, a nome di
quanti sanno davvero quanto preziosa sia la vita degli altri e soprattutto
quella dei propri nemici, di essere oggi ingiuriati ed oltraggiati da coloro
per i quali essi hanno assunto la parte pesante, la parte buia. Essi
offrono, in giorni cosi' poco lieti, un motivo di serenita', a noi che
odiamo solo l'odio, che amiamo la vita e non la morte: ci sara' sempre del
tritolo per distruggere gli stranieri e i servi-padroni che abitano fra noi,
per rompere l'aria di Roma, quando divenisse irrespirabile.
Non lamentiamo percio', in questo 25 aprile, gli esibiti dinieghi di
giustizia e le persecuzioni. Sappiamo (ma non abbiamo sempre saputo, noi
figli della borghesia: non avevamo prima sperimentato l'indifferenza feroce
della classe che mando' i suoi figli, i nostri compagni di allora, alla
guerra inutile) come, nel nostro paese, la fazione che al momento prevale o
ha l'omerta' della classe dominante non sappia misurar la vittoria e si
sfreni. I padroni di oggi, quelli lontani, d'America e San Pietro, e i loro
funzionari vicini, le eminenze e gli ambasciatori, i ministri e i magistrati
(con le cravatte e le collane, le donne e i figli, le ulcere e le carie, i
giornalisti e i portaspada), mettono in serbo quotidianamente un tesoro di
collera per il giorno dell'ira. Essi ridono ora e pensano che scamperanno,
come altre volte hanno scampato; e, in verita', che importa a noi della loro
vita? Li lasciamo avvolti nei loro libri morti, nei loro giornali
confortevoli come cucce, nelle loro dalmatiche e toghe che un soffio d'aria
puo' dissolvere in cenere, come quelle di certi corpi creduti incorrotti e
esposti fuori dalle arche al vento del secolo; li lasciamo alle loro
lunghissime e sottilissime paure. Se pensassimo che ha ragione chi vince non
varremmo (preparandoci, come facciamo, a vincere) piu' di loro; vince invece
chi ha ragione, chi piu' pazientemente ha ragionata fiducia e costanza nella
dignita' degli uomini e nella ragionevolezza degli eventi. Per questo la
nostra parte vince da cento anni; e fa delle sue temporanee sconfitte
gradino al suo avanzamento mentre essi non sanno fare, delle loro temporanee
vittorie, altro che bende di cecita'. C'era una fratellanza possibile
intorno a quei ventidue mesi di resistenza; c'era la possibilita' di un
culto comune, fra via Rasella e le Ardeatine; c'era anche luogo alla pieta'
e al perdono. Fra i tedeschi uccisi, vittime di Hitler e i trecento
fucilati, vittime della feroce stoltezza italiana. Quella possibile
fraternita', quel terreno di rispetto e di pace, essi l'hanno voluta sempre
piu' negare, sempre piu' abbandonare; e quel che avanza agli stipendi per i
generali, ai miliardi per armare ancora una volta la miseria contro la
miseria, ne fanno e faranno derisori monumenti, lacrime di cera e fiori
falsi di carta.
Sia dunque come essi vogliono, per i decenni avvenire, in aperta lotta. E'
una storia che abbiamo da insegnare ai nostri figli, se ce li lasceranno
crescere.
*
Da pagina 373
Dare forma alla esistenza [1967]
Dare forma alla esistenza significa assumere quel potere sulla materia
vitale che e' pedagogia quindi educazione, direzione, finalita'. Nelle
societa' di classe quel potere e' privilegio: lo si possiede nella misura in
cui altri ne e' spossessato. Sapere che cosa si fara' domani, volere un
adempimento, esercitare le virtu' dianoetiche, progettare, scegliersi il
lavoro, la causa, la morte: tutto questo e' nella storia ottenuto mediante
la distruzione anzi la dissoluzione delle forme che la classe dominata si
tramandava come sua cultura. Le culture subalterne sono colpite di
inessenzialita' e divengono derisorie anzitutto ai margini, sulle frange
contigue alle forme e ai valori delle classi superiori. L'uomo subalterno e'
un colonizzato, vive fra le ombre di forme inutili. Esiste senza limite;
sarebbe una semplice intenzione se non si portasse i residui delle forme
morenti e se - soprattutto - quei residui, "rigenerati", non gli venissero
continuamente proposti dalla classe dirigente. Naturalmente la forma del
privilegio e' autentica in quanto e' del privilegio mentre e' inautentica in
quanto puo' essere solo per sottrazione di autenticita' ad altri, per
reificazione degli altri. La sostanza umana degli altri diventa la materia
prima della vita privilegiata. La necessita' non diventa coscienza, i
progetti impossibili, la passivita' lasciano come colare una lava di
esistenza con cui il privilegiato risparmia la propria. Nella societa'
contemporanea, il partecipe del privilegio nuota, alla lettera, nella
semenza umana e se ne ricava le forme, i modelli...
(La dialettica di forma ed esistenza - o contenuto - ci rammenta che ogni
forma e' forma di qualcosa, che a sua volta ha una sua forma). Quando si
dice che "la classe rivoluzionaria, in quanto matrice della societa'
avvenire, porta la verita' poetica" e che "quel suo moto ha una sua legge
interna, organizza il proprio [...] secondo una metrica" si vuole dire che
anzitutto l'arte e la poesia (non "eterne" ma quali si specificano nelle
estetiche borghesi e marxiste fino ad oggi) in quanto organizzazioni
specifiche della forma sono propriamente privilegiate, o meglio che l'uso
della forma artistica e' inseparabile dalla disponibilita' di un uso formale
della vita. Per non parlare di societa' storiche ma solo di quelle
contemporanee, sembra molto probabile che con le nozioni di superfluo e di
sublimazione a livello delle energie vitali e biologiche si costituisca una
sfera di disponibilita'.
La distinzione fra un significato della forma in quanto tale e il
significato della forma in quanto forma di un dato contenuto va posta in
relazione a fasi diverse dello sviluppo sociale. La fruizione della forma
artistica in quanto forma - quello che chiamiamo formalismo - e' il
risultato di una astrazione, anzi di un vero e proprio abbandono del suolo
estetico (o sensibile) verso una "norma" che trascende il concreto (e questo
spiega il naturale trapasso di ogni estetismo in pseudo-eticita', in mistica
e in "religio"). Esso corrisponde a quella fase in cui il privilegio diventa
incapace di usare la propria medesima energia formatrice. Contrariamente a
quello che si crede di solito, la "vita come opera d'arte" non e' una parola
d'ordine dell'estetismo formalista, pone un segno di uguaglianza fra i due
termini ma quel segno di uguaglianza e' una immobilita' cadaverica. Mentre
il privilegio gode della propria capacita' formatrice.
*
Il socialismo non e' inevitabile [1967]
Aver atteso dalla trasformazione delle strutture economico-sociali
l'automatica trasformazione dei rapporti fra gli uomini o, non vedendola
cosi' facilmente sopraggiungere, averla dichiarata come gia' compiuta:
questo uno degli errori del socialismo sovietico, che non si deve ripetere.
In un paese a struttura diseguale come il nostro e in un mondo
spaventosamente "scalare", la lotta si svolge tanto per il cosiddetto
progresso tecnico-materiale quanto per quello del controllo democratico del
potere. In quest'ultimo senso, mi pare certo che compito del socialismo non
sia quello di trasformare il mondo in una valle di polli in scatola, di
edizioni economiche, di antifecondativi, di computers e di "tempo libero".
La questione non e' pero' neanche quella di lottare contro la civilta', o la
barbarie, della tecnologia e dell'industria di massa (la lotta apparente per
i "valori dello spirito" e' condotta benissimo dagli agenti della stessa
industria culturale-spiritualistica di massa); ma e' quello invece di
conquistare, e di tenere, il controllo della tecnologia della grande
industria; o, in altri termini, non appena di toglier di mezzo i padroni dei
mezzi di produzione, ma di controllare e dirigere la cosiddetta logica
interna della tecnica; di controllare gli uomini e le macchine che nelle
societa' tecnicamente piu' avanzate controllano e dirigono l'uomo
consumatore, l'uomo lavoratore, l'uomo "morale", i suoi desideri, paure e
fantasie. Il socialista sa che questa nuova specie di guerra, tema del
nostro tempo ovunque, a Mosca come a San Francisco, e a Londra come a
Pechino, puo' essere condotta solo se si traduce correttamente in lingua
moderna la vecchia frase di Marx secondo la quale "la filosofia e' la testa
del proletariato e il proletariato e' l'arma della filosofia", e se quindi
si lavora ad unire le piu' avanzate minoranze di intellettuali (quelli cioe'
che si siano impadroniti delle forme estreme assunte dalla scienza, dalla
tecnica e dalle "scienze umane", in breve: dalla cultura) con le masse che
piu' violentemente subiscono lo sfruttamento economico e ideologico: masse
economicamente sottosviluppate (popoli coloniali, semicoloniali, aree
depresse) e masse ideologicamente corrotte (piccoli neoborghesi, operai e
impiegati schiavizzati dai compromessi riformisti e dalla industria
pseudo-culturale, vuotati d'ogni realta' dalla apparente umanita' del
benessere o della sua parvenza).
E voi dite che la via per il socialismo non si dimostra abbastanza ricca di
quell'"altro" senza di cui la politica non vi sembra degna di esser vissuta?
Eppure "non avete da perdere che le vostre catene", catene che oggi vi
paiono solo mentali e intellettuali; e "avete da guadagnare tutto un mondo",
un mondo di solidarieta' da stabilire, di "cose da fare", di verita' da
ottenere e trasmettere.
Ma un partito politico non e' una chiesa, ne' una fede, ne' un padre; puo'
essere un "universale concreto" per la realizzazione di fini concreti. Non
avvicinatevi al Partito Socialista Italiano, e alla sua storia ora molto
gloriosa ora molto triste, chiedendo ad esso o ai suoi dirigenti "qualcosa
in cui credere". Questo qualcosa dovete cercarlo da voi, voi e i compagni
che vi scegliete piu' prossimi; e anzi, misurando l'immensita' dei compiti
che il socialismo propone su scala mondiale con le quotidiane difficolta'
che si incontrano nella vita di un partito politico, con tutto quello che vi
e' in esso di rattristante e scoraggiante, soprattutto oggi, vi accorgerete
che moltissimo resta da fare; e capirete perche' il vero uomo di partito e'
quello che sta sempre sull'orlo del partito, anche se e' un dirigente; che
e' sempre sul margine, dove il partito non e' piu' e dove la classe e'
ancora, fra la parte e la causa, fra una necessita' presente ed una di piu'
largo ambito. Secondo me (e proprio questo e' uno di quei motivi che
potreste chiamare "ideali", del socialismo) la scelta fondamentale che
dovete fare non e' tra uno o un altro partito; ma fra prospettive non
socialiste e prospettive socialiste, fra accettazione e negazione del
mondo-com'e', fra rassegnazione ad una societa' di beneducate distinzioni
(fin qui la politica, piu' in la' la morale, ancor piu' in la' l'arte; fin
qui il privato, piu' in la' il pubblico, eccetera) e la volonta' o la lenta
lotta per qualcosa che, con la divisione del lavoro e delle classi, superi
le divisioni inutili dell'uomo entro se stesso. Identificare quest'ordine di
scelte con un partito e' stato possibile ai comunisti (e, in un certo senso,
anche ai socialisti) in un dato periodo; non lo e' piu' oggi, anche se
statuti o retorica lo ripetono; puo' tornare ad esserlo, o ad essere
necessario, domani, nella misura in cui si riuscisse a far coincidere i
confini della scelta maggiore, quella in cui si risolve la parte maggiore
della nostra coscienza, con i confini di una organizzazione; e i veri
compagni con i "compagni" del linguaggio ufficiale.
A questo punto dovrei rispondere alla seconda delle vostre questioni:
perche' i dirigenti del Psi parlano cosi' di rado di quelle "altre" cose?
Perche' non danno prospettive per l'avvenire? Perche' si disinteressano di
tutte le domande vive della cultura di massa e dell'industria culturale?
Perche' lo stesso dibattito ideologico e' pressoche' inesistente? Perche',
insomma, il Partito Socialista Italiano sembra aver dato in appalto alle
strutture tradizionali della cultura borghese il compito di pensare e
interpretare la nostra realta'?
Ma le risposte sono nella storia recente d'Italia. Sono anche, se non del
tutto, nei "dieci inverni" della guerra fredda, se mi e' lecito richiamare
il titolo di un libro dove ho raccolto parte degli scritti nei quali, per
dieci anni, appunto, mi son posto ed ho posto le vostre medesime domande
senza trovare, debbo pur confessarlo, uno che mi rispondesse come oggi vi
rispondo io.
*
Da pagina 513
1977
Ultimo dell'anno
Quando avevo dieci o dodici anni, la sera dell'ultimo dell'anno, e i miei
genitori erano usciti per uno spettacolo o una cena con gli amici, andavo a
mezzanotte a mettermi davanti a uno specchio e li' giuravo a me stesso di
durare cosi' com'ero, di continuare a scrivere poesie per tutta la vita e di
non diventare mai come gli altri, come gli adulti. Ora ho sessant'anni e mi
pare di aver tenuto fede a quella promessa, non sono mai diventato del tutto
un adulto, certe volte mi chiedo se la vita non debba ancora cominciare.
Tutto questo potrebbe essere anche sereno, se non felice. Qualche volta mi
da' angoscia. Se ho scritto tanto, in versi e in prosa, se ho tradotto tanto
e se ho lavorato senza requie per quasi quarant'anni e' perche' non sono mai
riuscito a capire chi fosse veramente quello che in me lavorava e scriveva.
Questa divisione, questi rapporti con uno sconosciuto, si chiamano con certi
nomi; e sono i nomi che vengono dati dalle religioni e dalle psicologie. Non
ce la faccio piu' a cercare di sapere se sono una persona o due o cinque.
Non so chi sono e devo confessare che non me ne importa piu'.
Non so chi sono ma cerco di sapere chi sono stato, ossia in quale rete di
storia e di societa' mi sono trovato a vivere. L'angolo di mondo, che si
chiama Italia, i rapporti fra la gente, fra gli analfabeti, i
semianalfabeti, gli studiati, la gente colta, le sinistre borghesi, i
borghesi di sinistra, i nuovi veri irraggiungibili privilegiati, i
mangiatori di uomini, diciamo, che incontro ogni giorno, ai quali sorrido
affabilmente ed ai quali spero piaccia il mio lavoro... tutto questo cerco,
si', di capirlo come posso. Non e' vero che non sono stato felice. La
felicita' e' stata nei momenti di accordo fra l'esperienza e la parola
mentale. Nei momenti di novita', anche, quando la promessa di mutamento
diventava decisione.
Vorrei dire quando lo sono stato. Ma non ci riesco. L'ho scritto tanti anni
fa, in versi. E in questo momento avrei voglia di scherzare. Ma come fare a
scherzare senza strafare? Non ho messaggi. Quando si sono scritte tante
pagine, i messaggi, se ci sono, sono li'. Mi viene in mente il poscritto che
un grande uomo, uno scrittore e combattente della liberta' del suo paese, il
cubano Jose' Marti', quasi ottant'anni fa vergo' in una lettera a sua madre.
Le annunciava che era sul punto di partire per una spedizione, uno sbarco
nell'isola, contro gli occupanti spagnoli, come il nostro Pisacane; che
sapeva del rischio (fu ucciso, infatti, dopo lo sbarco e una lunga
guerriglia). Scriveva quell'uomo che aveva piu' di quarant'anni, alla madre,
come tanti di noi hanno scritto, chiedendo perdono di mettersi nei pericoli
ma riconoscendo che, se lo fanno, e' anche per l'insegnamento che le madri
gli hanno dato. E dopo aver firmato ("tuo figlio Jose'"), aggiunge: "La
verita' e la tenerezza non passeranno". La verita' e la tenerezza,
contrapposte e unite.

6. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

7. PER SAPERNE DI PIU'

Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta at sis.it

NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 830 del 24 maggio 2009

Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca
per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

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