Voci e volti della nonviolenza. 354



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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA
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Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino"
Numero 354 del 31 luglio 2009

In questo numero:
Glyn Strong intervista Malalai Joya

AFGHANISTAN. GLYN STRONG INTERVISTA MALALAI JOYA
[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per
averci messo a disposizione nella sua traduzione il seguente articolo dal
titolo "Il coraggio di una donna" di Glyn Strong apparso su "The
Independent" del 23 luglio 2009]

E' passato un anno dall'ultima volta in cui avevo visto Malalai Joya. Si
trovava all'aeroporto di Stansted e si preparava a tornare in Afghanistan:
una minuscola figura che reggeva una grande valigia e un trofeo del colore
dell'oro. Era il Premio intitolato ad Anna Politkovskaya per i difensori dei
diritti umani, e Joya era la seconda persona a riceverlo. Il Premio fu
creato in memoria della giornalista russa uccisa a colpi d'arma da fuoco
fuori dal suo appartamento moscovita nel 2006. La prima a riceverlo, Natalya
Estemirova, e' stata assassinata la scorsa settimana nella capitale cecena.
Mentre Estemirova le passava il trofeo nel 2008, il suo messaggio fu:
"Malalai, abbi coraggio".
Dopo essere sopravvissuta a cinque tentativi di omicidio se c'e' una cosa
che questa donna ha, e' proprio il coraggio. La sua storia e'
inestricabilmente legata alla storia recente del suo paese. Grazie alla sua
determinazione e' diventata parte delle leggende afgane: insegnante in un
campo profughi in Pakistan, poi attivista nelle scuole segrete per bambine
di Herat durante gli anni del regime talebano, infine eletta nel 2005 al
parlamento afgano, di cui era il membro piu' giovane.
Oggi e' in Gran Bretagna. Ha un libro da promuovere, Raising My Voice, ma e'
qui anche per riferire un messaggio inequivocabile quanto disturbante: il
messaggio e' che le truppe Nato non sono accettate nel suo paese. "Gli
afgani sono piu' di una manciata di signori della guerra, talebani,
spacciatori di droga e lacche'", dice, "Il mio paese e' pieno di gente che
sa quello che io so e che crede in quello che credo io, e cioe' che noi
afgani possiamo governarci da noi stessi, senza interferenze straniere". Dal
suo primo discorso all'Assemblea nazionale nel 2003, quando aveva 23 anni,
al giorno in cui fu sospesa dal parlamento con l'accusa di aver insultato
altri parlamentari, Joya non ha mai giocato con le parole. E' chiaro che il
suo messaggio non piacera' ne' a Gordon Brown ne' a Barack Obama.
Quando la incontrai per la prima volta a Kabul, due anni or sono,
all'incontro seguirono numerosi cambi di veicolo e perquisizioni personali e
di bagagli. La sua vita e' gia' stata minacciata, per cui il burqa e le
guardie del corpo sono di rigore persino per il piu' breve dei viaggi.
Eravamo insieme un giorno in cui ci arrivo' la notizia che tre soldati
inglesi erano stati uccisi ad Helmand. Joya non vuole le truppe Nato nel suo
paese, ma mi espresse la sua tristezza per i parenti e le famiglie delle
vittime che, come cosi' tanti afgani, avevano perso persone che amavano. Il
dolore, questo livellatore universale, e' qualcosa che lei ha sempre
compreso. "Non ci sara' mai pace durevole, se le vite degli afgani non
vengono valutate quanto quelle dei soldati occidentali. Ogni morte e' una
tragedia in se', ma troppo spesso le vittime afgane delle guerra vengono
semplicemente rubricate come 'danni collaterali' e riportate dai media come
'uccise per errore'. Gli omicidi di civili sono ormai migliaia, e le perdite
fra i talebani non ammontano neppure a un centinaio".
Mentre i media britannici si accapigliano sul numero degli elicotteri, sul
numero delle truppe di terra e sulle "strategie di uscita", Malalai Joya va
diritta al punto. La sua valutazione degli ultimi sette anni e' fatta in
termini puramente umani: "Assieme al terrore che viene dal cielo c'e' il
terrore sulla terra. I campi e le strade di tutto l'Afghanistan sono zeppe
di mine antiuomo inesplose, sin dai tempi dell'occupazione sovietica. Una di
queste mine e' costata una gamba a mio padre".
Joya ha tenuto diari sin dall'adolescenza, ma inizialmente era riluttante a
scrivere un libro. Il suo carattere quieto e introspettivo ha fatto si' che
la sua biografia fosse dedicata alle donne e ai bambini, le vittime
invisibili del conflitto e dell'oppressione a cui lei ha dato voce durante
gli anni: "Il mio popolo oppresso, i cui sospiri, le cui lacrime, la cui
sofferenza non e' vista da nessuno".
Joya e' scettica rispetto al conflitto nel sud del suo paese: "Helmand non
e' l'intero Afghanistan. Anche se i talebani fossero sconfitti la' non si
potrebbe chiamarlo un successo, perche' i talebani sono logisticamente e
militarmente stabilizzati in centinaia di altri posti in Afghanistan, e
crescono piu' forti ogni giorno che passa".
Spesso, Joya viene accusata di identificare i problemi ma senza offrir loro
soluzioni. L'assunto sottostante la critica e' che se gli Usa e la Gran
Bretagna ritirassero le loro truppe l'Afghanistan piomberebbe nel caos e
nella carneficina, ma lei non cede: "La situazione attuale e' gia' talmente
catastrofica che non puo' peggiorare. Ma e' compito del nostro popolo
lottare per i propri diritti, raggiungere valori quali la democrazia e i
diritti delle donne, e i diritti umani, nel nostro paese. E' una lotta
lunga, una lotta rischiosa piena di durezze e di sfide, ma io credo nella
mia gente".
Di solito, uno dei "vantaggi" piu' citati dell'intervento Nato e' proprio
l'aver migliorato la condizione delle donne afgane, ma Malalai Joya non e'
d'accordo: "Cosi' come i raid aerei non hanno portato sicurezza agli afgani,
cosi' l'occupazione non ha portato sicurezza alle donne afgane. In realta'
si e' trattato dell'esatto contrario. La ora tristemente famosa legge sul
diritto di famiglia non e' che la punta dell'iceberg della catastrofe che ha
colpito i diritti delle donne nel nostro paese occupato. L'intero sistema
ora, in special modo la magistratura, e' infettato dal virus del
fondamentalismo e percio' in Afghanistan gli uomini che commettono crimini
contro le donne possono farlo impunemente".
Joya ha ora 31 anni ed e' sposata; ha le speranze e i sogni di ogni giovane
donna, ma  l'impegno rispetto alla sua causa e' assoluto. Individuo dalla
profonda compassione, e' pero' assai decisa nel denunciare il silenzio
occidentale quanto lo e' nel denunciare gli impuniti criminali di guerra che
siedono nel parlamento afgano: "E' una vergogna che cosi' tanto della
realta' dell'Afghanistan sia stato nascosto dai media occidentali a sostegno
della 'giusta guerra'". Joya crede che le elezioni che si terranno il mese
prossimo offrano poche o alcuna speranza di cambiamento: "E' chiaro che il
futuro presidente e' gia' stato scelto a Washington. Come dice un nostro
proverbio: e' lo stesso asino, anche se con una sella nuova".
Joya non ha la tentazione di correre per la presidenza lei stessa, come
molti le hanno chiesto di fare? "Amo il mio popolo, e certo per sua volonta'
lo farei, ma lasciamo tempo al tempo. Sono costretta a vivere come una
fuggiasca nel mio stesso paese. Uno zio di cui mi fido organizza le mie
guardie del corpo con cui mi sposto in una casa diversa ogni notte, per
essere sempre un passo piu' avanti di chi vuole uccidermi. Per nascondere la
mia identita' viaggio coperta del burqa, che e' un simbolo di oppressione,
un sudario per gente viva. Durante i tempi oscuri dei talebani, potevo
almeno usarlo per andare ad insegnare alle bambine in segreto, ma oggi non
mi sento al sicuro neppure sotto di esso. Chi mi fa visita viene perquisito
in cerca di armi, e persino i fiori del mio matrimonio sono stati
controllati in cerca di bombe. Poiche' rifiuto di rinunciare alla mia
opposizione ai signori della guerra ed ai fondamentalisti so che potrei
aggiungermi alla lunga lista di afgani morti per la liberta'. Ma non si
possono fare compromessi sulla verita'. E infine non sono spaventata dalla
mia morte precoce, se essa fa avanzare il corso della giustizia".

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Numero 354 del 31 luglio 2009

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