[Nonviolenza] Voci e volti della nonviolenza. 809



 

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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA

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Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino" (anno XVII)

Numero 809 del 29 giugno 2016

 

In questo numero:

1. Un massacro a Istanbul

2. Due provvedimenti indispensabili per far cessare le stragi nel Mediterraneo e la schiavitu' in Italia

3. Per sostenere il centro antiviolenza "Erinna"

4. Luigi Ferrajoli: Il suicidio dell'Unione Europea (parte prima)

 

1. EDITORIALE. UN MASSACRO A ISTANBUL

 

Che si aggiunge ad infiniti altri.

Questo orrore indicibile di esseri umani che uccidono altri esseri umani.

Solo la nonviolenza puo' salvare l'umanita'.

 

2. REPETITA IUVANT. DUE PROVVEDIMENTI INDISPENSABILI PER FAR CESSARE LE STRAGI NEL MEDITERRANEO E LA SCHIAVITU' IN ITALIA

 

Riconoscere a tutti gli esseri umani il diritto di giungere nel nostro paese in modo legale e sicuro.

Riconoscere il diritto di voto a tutte le persone che vivono nel nostro paese.

 

3. REPETITA IUVANT. PER SOSTENERE IL CENTRO ANTIVIOLENZA "ERINNA"

[L'associazione e centro antiviolenza "Erinna" e' un luogo di comunicazione, solidarieta' e iniziativa tra donne per far emergere, conoscere, combattere, prevenire e superare la violenza fisica e psichica e lo stupro, reati specifici contro la persona perche' ledono l'inviolabilita' del corpo femminile (art. 1 dello Statuto). Fa progettazione e realizzazione di percorsi formativi ed informativi delle operatrici e di quanti/e, per ruolo professionale e/o istituzionale, vengono a contatto con il fenomeno della violenza. E' un luogo di elaborazione culturale sul genere femminile, di organizzazione di seminari, gruppi di studio, eventi e di interventi nelle scuole. Offre una struttura di riferimento alle donne in stato di disagio per cause di violenze e/o maltrattamenti in famiglia. Erinna e' un'associazione di donne contro la violenza alle donne. Ha come scopo principale la lotta alla violenza di genere per costruire cultura e spazi di liberta' per le donne. Il centro mette a disposizione: segreteria attiva 24 ore su 24; colloqui; consulenza legale e possibilita' di assistenza legale in gratuito patrocinio; attivita' culturali, formazione e percorsi di autodeterminazione. La violenza contro le donne e' ancora oggi un problema sociale di proporzioni mondiali e le donne che si impegnano perche' in Italia e in ogni Paese la violenza venga sconfitta lo fanno nella convinzione che le donne rappresentano una grande risorsa sociale allorquando vengono rispettati i loro diritti e la loro dignita': solo i Paesi che combattono la violenza contro le donne figurano di diritto tra le societa' piu' avanzate. L'intento e' di fare di ogni donna una persona valorizzata, autorevole, economicamente indipendente, ricca di dignita' e saggezza. Una donna che conosca il valore della differenza di genere e operi in solidarieta' con altre donne. La solidarieta' fra donne e' fondamentale per contrastare la violenza]

 

Per sostenere il centro antiviolenza delle donne di Viterbo "Erinna" i contributi possono essere inviati attraverso bonifico bancario intestato ad Associazione Erinna, Banca Etica, codice IBAN: IT60D0501803200000000287042.

O anche attraverso vaglia postale a "Associazione Erinna - Centro antiviolenza", via del Bottalone 9, 01100 Viterbo.

Per contattare direttamente il Centro antiviolenza "Erinna": tel. 0761342056, e-mail: e.rinna at yahoo.it, onebillionrisingviterbo at gmail.com, sito: http://erinna.it, facebook: associazioneerinna1998

Per destinare al Centro antiviolenza "Erinna" il 5 per mille inserire nell'apposito riquadro del modello per la dichiarazione dei redditi il seguente codice fiscale: 90058120560.

 

4. RIFLESSIONE. LUGI FERRAJOLI: IL SUICIDIO DELL'UNIONE EUROPEA (PARTE PRIMA)

[Dal "Comitato dei cattolici del No" riceviamo e diffondiamo il seguente articolo delll'illustre giurista Luigi Ferrajoli sul "suicidio dell'Europa", articolo che uscira' in luglio su "Teoria politica" ma e' stato gia' pubblicato sul sito dei "Comitati Dossetti per la Costituzione" nell'aprile scorso]

 

1. L'assurda architettura dell'Unione Europea: una federazione in senso giuridico senza unita' politica ne' democrazia - Stiamo assistendo al fallimento di quella che e' stata la piu' straordinaria e promettente innovazione istituzionale del secolo scorso: il progetto di integrazione europea. Questo fallimento e' in realta' un suicidio, dato che e' stato provocato in gran parte dalle politiche autolesioniste dell'Unione Europea. E' questo il paradosso che stiamo vivendo: un paradosso ben espresso dal titolo di un recente pamphlet di Jan Zielonka, Disintegrazione. Come salvare l'Europa dall'Unione Europea.

Per comprendere le ragioni di questo fallimento-suicidio occorre muovere da un dato di solito misconosciuto. Di solito si lamenta la mancata integrazione istituzionale dell'Europa: il fatto che l'Unione Europea, benche' politicamente integrata, non sia ancora, sul piano giuridico e istituzionale, una vera federazione. Io penso invece che questa tesi vada ribaltata. L'attuale ordinamento europeo ha gia', a mio parere, i tratti giuridici e istituzionali che sono caratteristici di un ordinamento federale. Sul piano politico, invece, esso e' ancora una confederazione, difettando di unita' politica, sia al vertice che alla base, nonche' dei tratti distintivi della democrazia, sia dei requisiti della sua dimensione rappresentativa o formale che di quelli della sua dimensione costituzionale o sostanziale. E' a questo assurdo assetto istituzionale che deve farsi risalire gran parte delle cause della crisi in atto.

In che cosa consiste, infatti, una federazione? Di 'federalismo' e di 'federazione' sono state date innumerevoli definizioni, cosi' come sono innumerevoli ed eterogenei gli ordinamenti che, al di la' del modello federale inaugurato dagli Stati Uniti, si sono qualificati come "federazioni" o "Stati federali", nonche' gli aspetti e le dimensioni nelle quali l'espressione "federalismo" puo' essere declinata. Ci sono pero' due tratti distintivi degli ordinamenti federali che li distinguono, sul piano giuridico, da un lato dalle semplici alleanze o confederazioni di Stati e, dall'altro, dagli Stati nazionali. Il primo di questi tratti e' la distribuzione delle funzioni di governo e delle relative competenze tra istituzioni dello Stato federale e istituzioni degli Stati federati e la comunanza delle funzioni e delle competenze federali a tutti gli Stati membri o federati. Il secondo tratto distintivo, connesso al primo e ancor piu' importante, e' la produzione, ad opera delle istituzioni federali, di norme e decisioni che entrano direttamente in vigore negli ordinamenti federati senza la necessita' della loro ratifica parlamentare, richiesta invece per la recezione negli ordinamenti statali delle norme dettate dai trattati internazionali. Il primo connotato, cioe' l'articolazione multilivello delle funzioni e delle competenze, distingue le federazioni dagli stati nazionali. Il secondo, cioe' la diretta potesta' normativa delle istituzioni comuni, le distingue dalle semplici alleanze o confederazioni. Per questo possiamo dire che il federalismo e' sempre una questione di grado. Precisamente, diremo, il grado di federalismo di un sistema politico si misura dalla quantita' e dalla qualita' delle funzioni pubbliche affidate a istituzioni federali, cioe' comuni a tutti gli Stati federati, e percio' dalla quantità e dalla qualita' delle fonti normative anch'esse comuni a tutti gli Stati federati perche', appunto, di livello federale.

Ebbene, intesa 'federazione' in questo senso, dobbiamo riconoscere che l'Unione Europea e' gia', sul piano giuridico, una federazione, dato che possiede entrambi i requisiti ora illustrati: la separazione tra competenze e istituzioni statali e competenze e istituzioni comunitarie, ossia federali, e il fatto che le norme da queste prodotte entrano immediatamente in vigore negli Stati membri senza necessita' di ratifica da parte dei loro Parlamenti. Si aggiungano l'esistenza di una costituzione, sia pure nella forma del trattato, e di una giurisdizione europea a tutela delle norme comunitarie. Ne' si tratta, semplicemente, di una separazione di funzioni e competenze tra livelli federali e livelli federati, bensi' della superiorita' e prevalenza delle fonti di livello federale e del diritto comunitario da esse prodotto sulle fonti e sul diritto degli ordinamenti degli Stati membri e perfino sulle loro costituzioni. Tutti noi europei, conseguentemente, siamo in gran parte governati dalle istituzioni comunitarie dell'Unione Europea. Il fenomeno e' a tal punto avanzato che la maggior parte delle nostre leggi sono, direttamente o indirettamente, di origine europea. Gli Stati membri dell'Unione si sono quindi privati di una parte rilevante della loro sovranita': non solo della sovranita' economica e monetaria, essendo essi indebitati in una moneta di cui non hanno il governo, ma anche, a causa dei condizionamenti economici imposti alle politiche di spesa dagli organi dell'Unione, della loro sovranita' in tema di politiche sociali, previdenziali e del lavoro. La vicenda greca e' sotto questi aspetti esemplare: il potere dell'Unione Europea e' di fatto a tal punto incisivo e penetrante nella vita dei popoli europei che le misure economiche da essa imposte hanno distrutto l'economia della Grecia e hanno messo nel nulla tutte le politiche progettate dai suoi governi democraticamente eletti.

Cio' che tuttavia contrassegna questo strano ordinamento europeo e' il fatto che esso e' una federazione sul piano giuridico ma e' ben lontana dall'esserlo sul piano politico, difettando, su questo piano, sia di unita' che di democrazia. E' questo il vero, gravissimo problema, che rischia oggi di provocare il crollo dell'Unione: la mancanza di unita' politica e di democrazia. Gli organi comunitari dell'Unione dotati di maggiori poteri di governo - la Commissione e il Consiglio europeo dei capi di Stato o di governo dei paesi membri dell'Unione - non sono stati ne' democratizzati politicamente, attraverso l'investitura popolare e rappresentativa, ne' esposti a forme di responsabilita' politica, ne' sottoposti effettivamente a limiti e vincoli costituzionali a garanzia dell'uguaglianza e dei diritti fondamentali di tutti i cittadini europei, pur stabiliti nelle costituzioni nazionali e nella stessa Carta dei diritti fondamentali dell'Unione. Al venir meno delle sovranita' nazionali dei singoli Stati non hanno corrisposto ne' l'affermazione di una sovranita' politica dell'Unione, ne' l'istituzione di un governo politico europeo in grado di supplire all'indebolimento dei governi nazionali. Non esiste, infatti, un governo europeo politicamente rappresentativo dell'insieme dei cittadini europei e finalizzato alla cura degli interessi generali dell'Unione. Esiste al contrario una sorta di consesso internazionale di 28 paesi nel quale non si decide a maggioranza mediante votazioni che farebbero apparire i paesi in minoranza vittime di decisioni straniere, ma si puo' solo realizzare una continua mediazione pattizia tra gli interessi in conflitto. Ne e' segno e prova il fatto che la sola cosa che i governi in dissenso dalle politiche dell'Unione possono fare, e che in effetti dichiarano ripetutamente ai loro elettorati di voler fare, e' andare a "battere i pugni sul tavolo" dei vertici europei; cosa che ovviamente non avrebbe senso in un ordinamento federale dotato di unita' politica e di democrazia e di funzioni di governo informate all'interesse dell'intera federazione. E' chiaro che una simile aporia - un federalismo giuridico privo di un governo politico di livello federale - non e', nei tempi lunghi, sostenibile. I suoi risultati sono stati tre, destinati ad aggravarsi e tutti disastrosi, senza un'inversione di rotta, per il futuro dell'Unione e delle nostre stesse democrazie nazionali.

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L'Unione Europea non persegue un bene comune europeo

Il primo risultato e' stato la mancata formazione di una sfera pubblica dell'Unione e lo sviluppo di politiche europee informate, volta a volta, non gia' a un interesse generale dell'Europa, bensi' agli interessi degli Stati membri, inevitabilmente in competizione tra loro. E' questo il primo aspetto dell'assenza di unita' politica al vertice della cosiddetta Unione Europea: il fatto che le sue istituzioni di governo non operano, come tutte le istituzioni federali, in funzione di un interesse pubblico europeo, bensi', come nelle organizzazioni internazionali, sulla base di compromessi tra gli interessi nazionali degli Stati membri. Nonostante la struttura federale dell'Unione e l'immediata operativita' delle sue decisioni in tutto il suo territorio, il Consiglio europeo e' infatti un organismo intergovernativo i cui membri difendono ciascuno gli interessi degli Stati da essi rappresentati, tra loro inevitabilmente in conflitto; con l'ovvio risultato che nella competizione tra Stati membri sono destinati a prevalere gli interessi degli Stati piu' forti. All'origine di questa ambivalenza e' stata l'istituzione stessa di un mercato e poi di una moneta comuni ai 19 paesi dell'Eurozona non accompagnata dalla creazione di un governo comune dell'economia. E' probabile che i padri costituenti dell'Unione abbiano dato per scontato che al mercato e alla moneta comuni avrebbe fatto seguito l'introduzione di un simile governo. Ma questo ulteriore sviluppo non e' avvenuto. Si spiega cosi' perche', in assenza di istituzioni comuni di governo dell'economia, un mercato comune che si vuole informato alla libera concorrenza comporti, inevitabilmente, l'opposizione di ciascuno Stato a politiche di sostegno delle loro economie ad opera degli altri Stati. Proprio perche' non esiste una sfera pubblica comune, infatti, l'unica garanzia che in effetti gli Stati hanno voluto e saputo concepire per tutelare le loro imprese dalla concorrenza straniera e' stata la regola, pattuita nei Trattati, di un radicale passo indietro dei governi nazionali nelle relazioni economiche e sociali: da un lato il divieto per gli Stati membri di falsare la concorrenza a danno delle imprese degli altri Stati con interventi - agevolazioni fiscali, sussidi o aiuti di altro tipo - a sostegno delle loro imprese in difficolta', anche a costo di provocare fallimenti e disoccupazione; dall'altro l'obbligo altrettanto rigido degli Stati membri di pareggiare i loro bilanci e di pagare i debiti pubblici, anche a costo di ridurre le garanzie dei diritti sociali, o peggio di privatizzare e consegnare alla logica del mercato le relative funzioni di garanzia come la scuola, la sanita', la previdenza e l'assistenza.

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Lo smantellamento dello Stato sociale nei singoli Stati

Di qui il secondo e ancor piu' grave risultato della mancanza di una sovranita' politica dell'Unione e di una sfera pubblica europea informata all'interesse generale dell'Europa intera: la neutralizzazione delle sfere pubbliche nazionali e lo smantellamento dei diversi sistemi di welfare. Il costo pagato dagli Stati membri al mercato comune europeo e' stato infatti la loro abdicazione sia al loro ruolo di intervento nell'economia, sia a quello di garanzia dei diritti sociali dei loro cittadini: in breve uno snaturamento della tradizionale identita' delle democrazie europee. E' in questa perdita di poteri politici - di funzioni di governo in materia economica e di funzioni di garanzia in materia sociale - non compensata da un loro trasferimento a una sfera pubblica comunitaria che consiste il vero deficit di democrazia dell'Unione: un deficit e un costo che sono stati enormemente aggravati dalla crisi economica di questi anni, che del resto hanno contribuito ad aggravare dato che essa avrebbe richiesto il massimo intervento delle funzioni pubbliche, sia nelle relazioni economiche che in quelle sociali. Ai passi indietro degli Stati e della sfera pubblica hanno invece corrisposto altrettanti passi avanti dei mercati. Alla rinuncia degli Stati alle loro tradizionali funzioni di governo dell'economia e di redistribuzione della ricchezza ha fatto riscontro la liberazione, da limiti e da vincoli, dei poteri economici e finanziari privati. Ne e' seguito un capovolgimento di fatto della natura delle costituzioni economiche delle nostre democrazie: dal loro modello normativo di tipo dirigista - quale risulta per esempio dagli articoli 41-43 della Costituzione italiana sulla programmazione e sulla possibile nazionalizzazione di servizi o imprese di interesse generale, nonche' dalle analoghe norme stabilite dagli articoli 14 e 15 della Legge Fondamentale tedesca, dagli articoli 17 e 18 della Costituzione greca, dal capo III della Costituzione spagnola e dalla parte seconda della Costituzione portoghese - al loro sostanziale mutamento in senso liberista, inevitabilmente provocato dalla preclusione ai nostri governi di autonome politiche economiche e sociali. L'Europa e' cosi' tornata ad essere soltanto un mercato comune, cioe' un'istituzione sovranazionale priva di una sua sfera pubblica, ma rispetto al passato paralizzata, dai poteri conferiti alle istituzioni comunitarie, anche nelle tradizionali sfere pubbliche degli Stati nazionali e nel loro ruolo di garanzia dei diritti fondamentali stabiliti nelle costituzioni statali. E' questo il prezzo altissimo che stiamo pagando a questo singolare federalismo privo di unita' politica: il libero spazio lasciato ai poteri dei mercati, la demolizione dei sistemi di welfare e del diritto del lavoro edificati in Europa nei primi decenni del dopoguerra, l'esplosione nei paesi piu' deboli di una questione sociale gravissima, la crescita delle disuguaglianze economiche e delle disparita' nei diritti sociali, garantiti solo nei paesi ricchi, e perfino nei diritti politici, essendo evidente che il voto in Germania pesa assai piu' del voto in Grecia o in Italia, tanto quanto il governo tedesco conta piu' del governi greco e di quello italiano.

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Il sogno dell'Europa si e' trasformato in incubo

Ne e' seguito un terzo, gravissimo risultato: il crollo, a livello di massa, dello spirito pubblico comunitario e del sentimento di unita' delle popolazioni europee. Giacche' l'unita' di un popolo, nel solo senso in cui merita di essere perseguita, risiede essenzialmente nell'uguaglianza nei diritti, affermata del resto, quale fondamento dell'Unione, nella Carta europea dei diritti fondamentali. Consiste, come scrisse Cicerone piu' di duemila anni fa, nella "par condicio civium" e nei loro "iura paria", e percio' nel senso di appartenenza di tutti e di ciascuno alla medesima comunita'. Oggi quel senso di appartenenza e' svanito, l'Europa viene avvertita come un'entita' ostile da una parte crescente della sua popolazione e il sogno europeo, proprio nei paesi del Sud Europa come la Grecia, la Spagna e l'Italia che in passato sono stati i piu' europeisti, si e' trasformato in un incubo. Di qui il facile successo di chi cavalca la rabbia e la delusione all'insegna dell'antieuropeismo. Ma un anti-europeismo demagogico di segno opposto si e' prodotto anche nei paesi creditori del Nord, le cui opinioni pubbliche sono state mobilitate all'insegna di un opposto vittimismo, sia pure in larga parte infondato: il rifiuto di pagare i costi prodotti dall'insolvenza dei paesi debitori del Sud. Di qui la lunga stagione di tensioni e conflitti tra i paesi europei che si sono manifestati in recriminazioni reciproche sempre piu' aggressive e che stanno risvegliando vecchi nazionalismi, accomunati soltanto dall'avversione all'Unione: siano essi basati sul senso di ingiustizia dei sacrifici imposti e sull'amor proprio ferito dei paesi del Sud, oppure sugli egoismi nazionali e sostanzialmente xenofobi dei paesi del Nord.

Si capisce allora come questa disgregazione dell'Unione Europea, e piu' ancora dell'Eurozona, sia dovuta alla sua abnorme ambivalenza istituzionale: quella di una federazione in senso giuridico non governata da un vero governo federale deputato alla cura degli interessi generali dell'Unione, bensi' da un consesso internazionale inevitabilmente subalterno, in assenza di una sfera pubblica comune, ai poteri economici e finanziari dei mercati. E' stato questo il vizio d'origine della costruzione europea: la creazione di un'unione economica prima dell'unione politica, ossia di un'Europa economica prima e senza l'Europa politica e l'Europa sociale. Venuta meno la sovranita' politica degli Stati, si e' a questa sostituita, in mancanza di una sovranita' politica europea, la sovranita' - anonima, invisibile e irresponsabile - dei mercati, ai cui dettami la politica europea si e' di fatto subordinata. Ne e' seguito un massiccio trasferimento di poteri dalla sfera pubblica a quella privata. Il vuoto di potere infatti non esiste: il vuoto di governo dei poteri pubblici e' stato colmato, di fatto, dal governo dei poteri privati dell'economia e della finanza. Mentre gli Stati membri, in mancanza di un comune governo europeo dell'economia, risultano esposti alle manovre della speculazione finanziaria, le sole politiche economiche imposte dall'Unione sono le politiche di rigore - mancati aiuti alle imprese in difficolta' e restrizioni dei sistemi di welfare - a sostegno delle regole del libero mercato, ovviamente in danno dei paesi piu' deboli e, in questi paesi, dei ceti piu' poveri. E' insomma accaduto che l'economia - prima il mercato comune e poi la moneta unica -, concepita dai padri costituenti dell'Europa come un fattore di unificazione, e' diventata un fattore di divisione a causa della miopia, dell'inettitudine e della connivenza con le sue fonti di finanziamento dell'attuale ceto politico.

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Ristrutturazione in senso antidemocratico del sistema dei poteri

2. Il capovolgimento della gerarchia democratica dei poteri e la crisi dell'identita' dell'Unione europea - E' avvenuto cosi' che la costruzione dell'euro e' entrata in "rotta di collisione" con i sistemi di Welfare. L'integrazione soltanto "negativa" realizzata dai passi indietro degli Stati nella sfera dell'economia e delle prestazioni sociali e l'assenza di qualunque forma di "integrazione positiva", cioe' di politiche sociali da parte degli organi dell'Unione, hanno determinato la totale prevalenza dell'Europa economica sull'Europa sociale.

Ma non si e' trattato soltanto di una regressione dello Stato sociale. Si e' trattato di una profonda ristrutturazione, in senso antidemocratico, dell'intero sistema dei poteri. Si sono ribaltati i rapporti tra societa' e rappresentanza politica, quelli tra parlamenti e governi e quelli tra politica ed economia: non sono piu' le forze sociali organizzate nei partiti che indirizzano dal basso la politica delle istituzioni rappresentative, ma e' il ceto politico che governa i partiti, politicamente neutralizzati dal loro sradicamento sociale e trasformati in macchine elettorali al servizio dei leader; non sono piu' i parlamenti rappresentativi che controllano i governi ancorandoli alla loro fiducia, ma sono i governi che controllano i parlamenti attraverso le loro maggioranze parlamentari rigidamente subordinate alla volonta' del capo; non sono piu' le istituzioni di governo politicamente rappresentative che regolano e governano l'economia e la finanza, ma sono sempre piu' i poteri dell'economia e della finanza, privi di una sfera pubblica alla loro altezza, che in difesa dei loro interessi impongono ai governi regole e politiche antisociali, legittimate dalle "leggi del mercato" pur se incompatibili con i limiti e i vincoli costituzionali.

Si e' in questo modo prodotto un capovolgimento di quella che chiamero' la gerarchia democratica dei poteri: la quale vorrebbe al vertice, o se si preferisce alla base, i poteri delle forze sociali mediate dai partiti politici, poi i poteri politici che delle forze sociali dovrebbero essere rappresentativi nella sfera pubblica e infine i poteri economici e finanziari che dai poteri pubblici dovrebbero essere regolati e controllati a garanzia dei diritti e degli interessi di tutti. Oggi, al contrario, il primato del mercato sulla politica e della politica sulla societa' e' stato provocato dalla smobilitazione sociale dei partiti, apertamente perseguita in questi anni dai loro gruppi dirigenti. E' questa sterilizzazione delle basi sociali dei partiti e il conseguente venir meno del condizionamento dal basso della politica la prima condizione necessaria della cosiddetta "governabilita'". La seconda condizione e' la mutazione in senso verticistico e tendenzialmente autocratico dei sistemi politici prodotta, per esempio in Italia, dall'esautorazione del Parlamento, destinata per di piu' ad aggravarsi con le riforme istituzionali in atto. Ce le chiede l'Europa, ripetono in Italia i nostri vertici politici, a proposito della riforma elettorale e di quella costituzionale. E' vero: queste riforme vengono sollecitate dai mercati per il tramite delle istituzioni europee, dato che solo grazie al mutamento in senso decisionistico e verticale delle istituzioni politiche puo' essere assicurata la "governabilita'" da essi richiesta: che vuol dire l'onnipotenza della politica nei confronti della societa', quale si manifesta nelle politiche antisociali di riduzione della spesa pubblica e dei diritti dei lavoratori, resa necessaria perche' la politica possa rendersi impotente nei confronti dei mercati e subalterna ai dettami dei poteri economici e finanziari.

Ebbene, questo ribaltamento della gerarchia democratica dei poteri e il conseguente primato del mercato sono stati favoriti dai processi di semplificazione, confusione e concentrazione dei poteri generati, non solo nell'Unione Europea ma in tutti i paesi membri, dall'assenza di regole idonee ad impedirli. Dobbiamo infatti riconoscere che in mancanza di rigide garanzie di separazione e di incompatibilita' tra i diversi tipi di poteri - tra poteri politici e poteri economici, tra funzioni di governo e funzioni di garanzia, tra poteri pubblici e poteri sociali - i poteri economici privati, essendo dotati di maggiore autonomia e percio' piu' sregolati, finiscono inevitabilmente per prevalere e per subordinare agli interessi dei loro titolari i poteri politici di governo; i quali a loro volta fanno uso della loro delle funzioni discrezionali di governo da un lato per limitare le funzioni amministrative di garanzia primaria dei diritti, come la scuola, la sanita' e la previdenza da cui dovrebbero invece essere limitati e, dall'altro, per neutralizzare i partiti, che dovrebbero indirizzarli e controllarli, smobilitandone le basi sociali.

A questa ristrutturazione in senso antidemocratico del sistema dei poteri che si sta producendo in tutta l'Europa, concorrono infine altri fattori, che vanno al di la' della vicenda europea. Un primo fattore e' l'asimmetria tra il carattere globale dell'economia e della finanza, determinato soprattutto dalla liberalizzazione della circolazione dei capitali, e i confini ancora prevalentemente statali sia del diritto che della politica. Sul piano giuridico e politico, la globalizzazione si manifesta infatti come un vuoto di diritto pubblico colmato da un pieno di diritto privato. Ed e' chiaro che, in assenza di una sfera pubblica alla loro altezza, i poteri economici e finanziari si sviluppano come poteri selvaggi, non piu' regolati dagli ordinamenti statali, ma al contrario in grado di condizionare le politiche degli Stati. Anche sotto questo aspetto, il rapporto tra Stato e mercato si e' ribaltato: non sono piu' gli Stati che garantiscono la concorrenza tra le imprese, ma sono le grandi imprese che mettono in concorrenza gli Stati privilegiando, per i loro investimenti, i paesi nei quali possono piu' facilmente sfruttare il lavoro, pagare meno imposte, inquinare l'ambiente e magari corrompere i governi.

Il secondo fattore non meno decisivo di questo ribaltamento della gerarchia democratica dei poteri e' di carattere culturale. Consiste nel potente sostegno ad esso prestato, negli anni della proclamata "fine delle ideologie", dall'ideologia liberista, cui ha corrisposto la totale abdicazione culturale delle sinistre e il loro contagio alla religione del mercato. E' chiaro che la subalternita' della politica alle ragioni del mercato, sulla base dell'idea che a tali ragioni non esistono alternative, ne ha prodotto lo snaturamento, o peggio la scomparsa, quanto meno nel suo senso tradizionale. E questa scomparsa ha pesato soprattutto sulla sinistra, omologata alla destra o comunque neutralizzata nelle sue istanze di trasformazione. Giacche' il senso della politica progressista e' la riduzione delle disuguaglianze, la garanzia dei diritti sociali, la tutela dei piu' deboli e percio' la cura degli interessi generali. Tutte queste finalita' sono state sostituite, dalla fine delle cosiddette ideologie, cioe' dei progetti politici di trasformazione, e grazie anche all'introduzione di sistemi elettorali maggioritari, dalla competizione fine a se stessa, che ha ridotto la politica a una pura lotta di fazioni per la conquista del potere attraverso la persuasione pubblicitaria, secondo appunto la logica del mercato, dell'elettorato cosiddetto "centrista" o "moderato", che altro non e' che il piu' spoliticizzato, il piu' disinformato e il piu' disinteressato. Questo svuotamento di senso della politica, d'altro canto, retroagisce sulla societa', alimentando la disillusione dei cittadini nel progetto europeo e la loro sfiducia o peggio il loro disprezzo per l'intero ceto politico, per le stesse istituzioni democratiche e per la sfera pubblica in quanto tale, frustrandone l'impegno politico ed orientandoli esclusivamente alla cura dei loro personali interessi, fino a favorire i fenomeni dell'illegalita' diffusa, del voto di scambio e del malaffare. Di qui un terzo fattore, il piu' penoso, della subalternita' della politica ai poteri economici e finanziari: i legami con questi intrecciati dal finanziamento privato dei partiti, dalla pressione delle lobbies, dai tanti conflitti di interesse e dai fenomeni sempre piu' diffusi di corruzione.

Si capisce come il risultato di simili processi sia stato una crisi radicale dell'identita' dell'Europa. L'Europa sta negando se stessa. Non e' piu' l'Europa civile e sociale dei diritti e della solidarieta' che fino a pochi anni fa rappresentava un modello per i progressisti di tutto il mondo, ma un'Europa divisa, disuguale e depressa, debilitata politicamente e moralmente, avvertita come ostile da parti crescenti delle popolazioni, nuovamente in preda agli egoismi nazionali, alle pretese egemoniche, ai populismi xenofobi, alle rivalita', alle recriminazioni, ai risentimenti, ai rancori e alle diffidenze reciproche.

Ci sono due tragedie nelle quali si e' drammaticamente e vergognosamente manifestata questa crisi d'identita' dell'Europa, conseguente al capovolgimento del sistema dei poteri da cui l'Unione Europea e' governata. La prima tragedia e' stata la disciplina micidiale e inflessibile in materia di bilanci pubblici e di pagamento del debito imposta a una Grecia gia' ridotta allo stremo: una disciplina insensata, dato che proprio la sua durezza ne rende impossibile il rispetto, e percio' non spiegabile se non con la volonta' di impartire una lezione a tutti gli altri paesi indebitati. La seconda tragedia e' la xenofobia razzista rivelata da gran parte dei paesi dell'Unione, soprattutto dell'est, la loro sordita' al dramma dei profughi, respinti alle loro frontiere con muri, fili spinati e violenze poliziesche, e le migliaia di morti provocate dalle loro feroci politiche di esclusione e da una gigantesca e criminale omissione di soccorso. La prima tragedia e' stata promossa con successo dalla Germania, alle cui politiche di austerita' tutti i paesi europei, inclusi quelli piu' indebitati come l'Italia, si sono disciplinatamente allineati, lasciando la Grecia totalmente isolata. La seconda, al contrario, e' stata all'inizio contrastata proprio dalla Germania - e specificamente dalla cancelliera Angela Merkel - che in una famosa dichiarazione del 15 settembre 2015 ha fatto appello ai valori di solidarieta' e al rispetto dei diritti umani che dovrebbero essere alla base dell'Unione. Ebbene, la Germania e' risultata tanto potente nel far valere le regole del mercato, quanto impotente nel far valere il rispetto dei diritti umani: a riprova del fatto che le vere norme fondamentali dell'odierna Unione Europea non sono piu' le costituzioni, con i loro principi di uguaglianza, solidarieta' e dignita' delle persone e con i loro cataloghi di diritti fondamentali, bensi' le regole ferree e inflessibili del mercato e dell'economia. Non solo. A causa del non tempestivo pagamento dei debiti, dovuto tra l'altro al crollo della propria economia provocato dalle politiche antisociali imposte dall'Unione, la Grecia e' stata a lungo minacciata di espulsione dall'Eurozona. Al contrario, la xenofobia razzista di paesi come quelli del gruppo Visegrad - la Polonia, l'Ungheria, la Repubblica Ceca e la Slovacchia - che stanno istallando muri e fili spinati ai loro confini e rifiutano di accogliere profughi sulla base di una politica comune europea in tema di immigrazione, non viene giudicata incompatibile con la loro appartenenza all'Unione. Contro nessuno di questi paesi e' stata neppure avviata la procedura prevista dall'art. 7 del Trattato sull'Unione e diretta a "constatare che esiste il rischio di violazione grave da parte di uno Stato membro dei valori di cui all'art. 2", come il "rispetto della dignita'" delle persone e "dei diritti umani", la "giustizia" e la "solidarieta'". Addirittura taluni paesi del Nord sono arrivati a chiedere l'espulsione della Grecia dall'area Schengen a causa della sua incapacita' di controllare le sue frontiere e di fermare l'esodo dei migranti; un'idea che e' stata respinta solo perche' si e' calcolato che la fine della libera circolazione delle merci, con il ritorno dei controlli e i tempi persi dalle file dei veicoli alle frontiere, sarebbe costata all'intera Europa troppi miliardi di euro.

Su queste due tragedie - l'isolamento in cui e' stata lasciata la Grecia e le politiche contro gli immigrati - si sta consumando la crisi d'identita' dell'Europa. L'Unione Europea era nata per porre fine ai razzismi, alle discriminazioni e ai genocidi: non per dividere e per escludere, ma per unificare ed includere sulla base dei comuni valori dell'uguaglianza, della solidarieta' e dei diritti fondamentali di tutti. Oggi essa sta capovolgendo quel ruolo. Sta mettendo gli Stati membri gli uni contro gli altri e all'interno degli Stati i ricchi contro i poveri, i poveri contro i migranti, i penultimi contro gli ultimi. Sta moltiplicando, con le leggi contro l'immigrazione - le odierne leggi razziali - le disuguaglianze di status, per nascita, tra cittadini optimo iure, semicittadini piu' o meno stabilmente regolarizzati e immigrati clandestini, ridotti allo status di persone illegali o non-persone. Sta, soprattutto, mettendo in atto una gigantesca omissione di soccorso e un nuovo genocidio, sia pure per omissione: quello dei migranti che fuggono dalle guerre, dal terrore e dalle loro citta' ridotte a cumuli di macerie, che in migliaia ogni anno affogano in mare nel tentativo di raggiungere l'Europa e in centinaia di migliaia si affollano ai nostri confini contro barriere e fili spinati, lasciati al freddo e alla fame, dispersi e malmenati dalle nostre polizie. Sta cancellando, infine, l'ultimo e piu' rilevante tratto unificante dell'Unione: la libera circolazione delle persone nell'area Schengen, negata di fatto dai controlli blindati alle frontiere della Svezia con la Danimarca, della Danimarca con la Germania, della Germania con la Repubblica Ceca e con l'Austria, della Repubblica Ceca e della Slovacchia con l'Austria e con l'Ungheria, dell'Ungheria e della Macedonia con la Grecia e poi dell'Olanda con la Germania e della Francia con l'Italia.

Alla trasformazione delle frontiere europee in barriere, contro le quali si accalcano masse crescenti di disperati, sta d'altro canto contribuendo il terrorismo, di fronte al quale l'Europa e' divisa al punto da non riuscire nemmeno a organizzare un'unificazione, o quanto meno un effettivo coordinamento delle forze di polizia degli Stati membri. Naturalmente il trattamento disumano in tal modo inflitto a queste masse di profughi, in fuga dalle guerre e dalle devastazioni provocate in gran parte dalle nostre politiche dissennate, ha come effetto la crescita dell'odio nei confronti dell'Occidente e percio' del terreno di coltura del terrorismo. Naturalmente il linguaggio della guerra con cui molti dei nostri demagoghi leggono e fronteggiano il fenomeno terrorista rappresenta il maggior regalo al terrorismo jihadista, che come "guerra" si autorappresenta e si propone e come "guerra santa" legittima i suoi assassinii e la sua ferocia. Ovviamente, l'assoluta sovranita' dei mercati impedisce non solo di prendere in considerazione ma neanche di discutere di quella che sarebbe la piu' efficace misura di prevenzione contro la criminalita' terroristica e le guerre in Medio Oriente e in Africa e, in generale, la migliore garanzia della vita e della pace: la radicale messa al bando delle armi, attraverso il divieto assoluto, senza eccezioni, della loro detenzione e, prima ancora e soprattutto, del loro commercio e della loro produzione. I 450.000 omicidi commessi ogni anno nel mondo, in massima parte con armi da fuoco, e i circa 2 milioni di morti l'anno nelle tante guerre civili che infestano il pianeta, non bastano, evidentemente, a fermare questa follia autodistruttiva, che si manifesta nella produzione e nella vendita  delle armi da parte degli stessi paesi che nel caso del terrorismo sono le vittime stesse del loro impiego.

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Il linguaggio dell'economia ha sostituito politica e diritto

3. L'ideologia dell'inesistenza di alternative. Processi decostituenti a livello europeo e al livello degli Stati membri - Questo crollo dell'identita' e della ragion d'essere dell'Unione Europea ne ha trasformato il governo in una tecnocrazia. Venuta meno la politica, cioe' il governo politico dell'economia e le politiche sociali informate all'uguaglianza e alla dignita' delle persone, le funzioni di governo si sono ridotte al vigile controllo del rispetto delle leggi del mercato. Questo e non altro e' il senso delle cosiddette politiche di austerita': l'attuazione tecnica, tramite prescrizioni, controlli e sanzioni, delle regole del mercato, pur se in contrasto con tutti i principi costituzionali formulati nei Trattati istitutivi e con la stessa ragion d'essere dell'Unione. Ne e' prova il carattere del tutto informale e sempre in clamoroso contrasto con il diritto europeo delle misure impartite ai paesi indebitati. Si pensi alla lettera del 5 agosto 2011 con cui la Banca Centrale Europea impose misure urgenti al governo italiano, all'inizio tenuta segreta e tanto priva di valore giuridico quanto potentemente vincolante sul piano fattuale. Ma si pensi anche alle misure imposte alla Grecia in cambio di ulteriori prestiti dalla cosiddetta troika, che non e' un organo dell'Unione, bensi' un singolare organo di tutela dei diritti dei creditori istituito da un Trattato internazionale (sul cosiddetto Mess [Meccanismo europeo di stabilita']) e formato da rappresentanti del Consiglio europeo, della Commissione e del Fondo monetario internazionale.

Si tratta, in breve, di misure che si fanno valere, al di la' della loro validita' giuridica, in attuazione delle leggi economiche del mercato e sulla base dei rapporti internazionali di forza, ben piu' che delle relazioni tra Stati membri della sedicente "Unione". Del resto, anche l'imposizione agli Stati del vincolo del pareggio di bilancio e' stata il frutto di una logica internazionalistica o confederale, ben piu' che federale, essendo stata anch'essa stipulata con un  trattato internazionale: il trattato sul Fiscal compact del 2.3.2013 stipulato tra 25 dei 28 Stati membri, in violazione oltre tutto della norma sul limite del 3% del disavanzo pubblico rispetto al Pil stabilito dal trattato istitutivo dell'Unione, nonche' della regola dell'unanimita' da questo prevista per la validita' delle modifiche del Trattato. Entrambe queste violazioni hanno mostrato che sono le leggi dell'economia che di fatto prevalgono, in Europa, sulle regole del diritto.

Il linguaggio dell'economia del resto, a causa del carattere solamente economico ormai assunto dall'Unione, ha sostituito totalmente il linguaggio sia del diritto che della politica come il linguaggio del potere e delle attivita' di governo, oltre che della formulazione dei problemi e delle loro soluzioni. E' un linguaggio che ignora totalmente il costituzionalismo e con esso concetti normativi come 'diritti fondamentali', 'uguaglianza' e 'dignita' della persona'. Il suo vocabolario e il suo unico criterio di razionalita' sono quelli liberisti legati allo sviluppo economico e alla crescita della ricchezza, poco importa se a vantaggio non di tutti ma di una minoranza di ricchi. Rispetto a questi criteri, come ripetono spesso i governanti europei a cominciare dalla cancelliera Angela Merkel, "non ci sono alternative". Di qui la riduzione della politica a tecnocrazia - precisamente all'applicazione tecnica delle leggi dell'economia -, cioe' a una forma di potere che, come ammoni' Norberto Bobbio, e' antitetica alla democrazia.

Dobbiamo invece essere consapevoli che questa tesi della mancanza di alternative e' falsa e smaccatamente ideologica, dato che si risolve nella legittimazione di cio' che accade solo perche' accade e in una resa senza condizioni della politica all'economia e alla tecnocrazia; che essa equivale percio' alla vera "anti-politica", cioe' alla negazione della politica, da essa ridotta a inutile funzione parassitaria; che al contrario in politica non c'e' nulla di inevitabile, essendo un tratto della politica la scelta, volta a volta, tra piu' politiche praticabili; che quindi esistono sempre alternative, e piu' che mai alle politiche attuali rivelatesi oltre tutto fallimentari anche sul piano economico, essendo state tra le cause della crisi della quale continuano, paradossalmente, a riproporsi come terapia.

Tanto meno e' vero che la mancanza di politiche alternative sia dovuta, come ripetono economisti liberisti e politici di governo, alla mancanza delle risorse per finanziarle. Le risorse ci sono, ed e' compito della politica trovarle attraverso adeguate politiche fiscali. E' infatti aumentata enormemente, in questi anni, la disuguaglianza: i ricchi sono diventati sempre piu' ricchi e i poveri sempre piu' poveri, al punto che ormai l'1% della popolazione mondiale - lo stesso 1% che secondo lo slogan degli occupanti di Wall Street governa il restante 99% - possiede piu' della meta' della ricchezza mondiale. Non solo. Secondo l'ultimo rapporto Oxfam, le 62 persone piu' ricche del mondo hanno raggiunto una ricchezza pari a quella della meta' piu' povera dell'intera popolazione del pianeta, cioe' di 3 miliardi e 600 milioni di persone; inoltre, la crescita della disuguaglianza procede in maniera esponenziale, dato che rispetto al 2010 quelle 62 persone hanno accresciuto la loro ricchezza nella misura del 44%, mentre la meta' piu' povera degli abitanti del pianeta ha visto ridurre la propria ricchezza nella misura del 41%. E' quindi una decisiva redistribuzione della ricchezza che oggi una politica economica degna di questo nome dovrebbe realizzare: imponendo sulle ricchezze piu' scandalose imposte patrimoniali; attuando il principio della progressivita' delle imposte fino a raggiungere aliquote oltre il 90% per i redditi piu' scandalosamente elevati; introducendo, mediante trattati internazionali, limiti o quanto meno efficaci controlli sulla circolazione dei capitali onde impedirne la fuga nei paradisi fiscali.

E' dalla redistribuzione della ricchezza, d'altra parte, che dipende qualunque tipo di progresso futuro. Sono precisamente le spese pubbliche rese possibili dal prelievo fiscale e dal loro impiego nella garanzia dei diritti sociali che determinano non solo la coesione sociale e la crescita civile e politica, ma anche lo sviluppo economico. Non dimentichiamo che nel 1945, all'indomani della Liberazione e della fine della guerra piu' distruttiva della storia, l'Europa - e piu' di tutti la Germania e l'Italia - era un cumulo di macerie: sul piano economico, oltre che sul piano istituzionale e su quello politico e morale. Fu su quelle rovine, con risorse incomparabilmente inferiori a quelle attuali, che fu rifondata la democrazia nelle forme della democrazia costituzionale: sulla base dei fermi "mai piu'" opposti a quel tragico passato dalla politica alta di chi aveva combattuto il nazifascismo. Un mai piu', innanzitutto, ai totalitarismi, attraverso i limiti e i vincoli di contenuto imposti alla politica dalle nuove costituzioni rigide, da quella italiana del 1948, a quella giapponese e a quella tedesca del 1949. Un mai piu' alle guerre e alle violazioni dei diritti, attraverso l'imperativo della pace formulato nella Carta dell'Onu del 1945 e la proclamazione, nel 1948, della Dichiarazione universale dei diritti umani. Un mai piu' ai nazionalismi aggressivi e ai conflitti politici e religiosi che avevano funestato il continente europeo, attraverso quel miracolo politico che fu, nel 1956, il progetto oggi in crisi dell'unificazione dell'Europa. Ma un mai piu' anche alle eccessive disuguaglianze, attraverso la costituzionalizzazione dei diritti sociali e percio' dei relativi obblighi di prestazione e di spesa a carico della sfera pubblica e, conseguentemente, una politica fiscale informata al principio della progressivita' delle imposte.

Oggi, in un'Europa enormemente piu' ricca e sviluppata, si e' perduta la memoria di quei mai piu' opposti a quel tragico passato. Le costituzioni sono state rimosse dall'orizzonte della politica e si e' sviluppata, nell'Unione Europea e nei paesi membri, una sorta di processo decostituente attraverso il rovesciamento piu' sopra illustrato della gerarchia democratica dei poteri e la disinvolta restrizione dei diritti sociali e dei diritti dei lavoratori costituzionalmente stabiliti. L'attivismo decostituente dei nostri governi si e' manifestato sia sul piano della dimensione formale che su quello della dimensione sostanziale delle nostre democrazie: da un lato con riforme istituzionali, come quelle italiane gia' ricordate, finalizzate al rafforzamento dell'esecutivo e all'indebolimento del Parlamento; dall'altro con le politiche antisociali - la demolizione del diritto del lavoro e i tagli alle spese sociali a garanzia dei diritti alla salute, all'istruzione e alla sussistenza - imposte dai mercati e rese possibili, come si e' visto, dalla conquistata governabilita' e dall'autonomia della politica dalle sue basi sociali e dai vincoli costituzionali.

E invece sono proprio i "mai piu'" formulati con le costituzioni del dopoguerra che oggi dobbiamo ricordare, giacche' fu grazie ad essi che si sono prodotte non soltanto la rifondazione delle nostre democrazie ma anche il piu' rapido e straordinario sviluppo economico della storia. Dall'Europa rasa al suolo dell'immediata dopoguerra si e' passati, nello spazio di soli trenta anni, all'economia complessivamente piu' forte del pianeta e ai piu' alti livelli di vita, di sicurezza sociale e di progresso civile. Quell'impetuoso progresso economico fu reso possibile, contrariamente all'odierno credo liberista, proprio dallo sviluppo della democrazia politica e, piu' ancora, dalla costruzione dello stato sociale: in Italia, in particolare, dall'introduzione del servizio sanitario nazionale universale e gratuito, dalla scolarizzazione di massa, dalle garanzie universali della previdenza e dell'assistenza, in breve dall'attuazione del progetto costituzionale in tema di diritti sociali e di diritti dei lavoratori. Abbiamo cosi' avuto la prova che le garanzie di tali diritti non rappresentano affatto, secondo il luogo comune liberista, un lusso che solo i paesi ricchi possono permettersi, bensi' il principale investimento produttivo, dipendendo da esse la produttivita' individuale e percio' la produttivita' collettiva. Ne sono una conferma due chiarissimi processi storici sviluppatisi in Italia e piu' in generale in tutta Europa nel dopoguerra: da un lato la crescita costante del Pil in quei primi trent'anni, simultanea, appunto, alla costruzione dello stato sociale; dall'altro la recessione economica negli ultimi dieci anni, simultanea alle controriforme che hanno ridotto lo stato sociale, dalla sanita' pubblica, le cui prestazioni sono state monetizzate in contrasto con il carattere universale e percio' gratuito del diritto alla salute, alla scuola pubblica e ai diritti dei lavoratori. In breve, cio' che allora ha determinato quello straordinario sviluppo civile ed economico fu la volonta' politica di dare attuazione al progetto costituzionale, oggi accantonato con le conseguenze disastrose qui illustrate.

(Parte prima - segue)

 

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VOCI E VOLTI DELLA NONVIOLENZA

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Supplemento de "La nonviolenza e' in cammino" (anno XVII)

Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 809 del 29 giugno 2016

 

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