Nonviolenza. Femminile plurale. 24



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NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE
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Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino"
Numero 24 dell'11 agosto 2005

In questo numero:
1. Maria Chiara Pievatolo: Postfazione a "Le donne e la giustizia" di Susan
Moller Okin
2. Chiara Zamboni: Tra visibile e invisibile
3. Dominique Vidal: Le donne della Rosenstrasse

1. RIFLESSIONE. MARIA CHIARA PIEVATOLO: POSTFAZIONE A "LE DONNE E LA
GIUSTIZIA" DI SUSAN MOLLER OKIN
[Dal sito www.sp.unipi.it riprendiamo la Postfazione di Maria Chiara
Pievatolo al libro di Susan Moller Okin, Le donne e la giustizia. La
famiglia come problema politico, Dedalo, 1999, a cura di G. Palombella e M.
C. Pievatolo.
Maria Chiara Pievatolo e' docente associata di filosofia politica
all'Universita' di Pisa. E' curatrice del Bollettino telematico di filosofia
politica e della collana Methexis. Tra le opere di Maria Chiara Pievatolo:
La giustizia degli invisibili. L'identificazione del soggetto morale, a
ripartire da Kant, Carocci, Roma 1999; I padroni del discorso. Platone e la
liberta' della conoscenza, Plus, Pisa 2003.
Susan Moller Okin, illustre pensatrice femminista americana, e' docente di
scienze politiche alla Stanford University. Tra le opere di Susan Moller
Okin: Le donne e la giustizia. La famiglia come problema politico, Dedalo,
Bari 1999]

Justice, Gender and the Family e' un testo di filosofia politica che parla
di donne, bambini ed asili infantili. Un lettore europeo di formazione
accademica potrebbe convincersi di avere buoni motivi per riesumare il
dileggio di Hegel nei confronti dei filosofi che si perdevano in questioni
empiriche ed esteriori: "Platone poteva tralasciare di raccomandare alle
balie di non star mai ferme con i bambini, di dondolarli sempre sulle
braccia" (1). Ma la Okin giunge a questi temi per motivi tutt'altro che
esteriori, dopo aver scritto un libro importante come Women in Western
Political Thought (2),nel quale si confronta con la tradizione filosofica
occidentale, da Platone fino a John Stuart Mill, sul problema del ruolo
della donna nell'essere e nel dover essere politico e sociale.
Alle origini di questa tradizione, nella Repubblica, Platone affronta il
problema della famiglia come luogo di potere e di interessi privati, che si
contrappongono all'interesse pubblico. E lo affronta con tale radicalita',
da proporre di eliminare la famiglia e di trasformare la comunita' politica
in una grande comunita' fraterna, nella quale perfino gli accoppiamenti sono
determinati in base agli interessi eugenetici della citta'. Egli,
naturalmente, ha di mira la famiglia del mondo greco a lui contemporaneo:
una comunita' economica schiavista e patriarcale, che si occupava dei
bisogni materiali e riproduttivi, mentre a quelli affettivi ed erotici
provvedevano, fuori casa, la pederastia e le cortigiane. Numerosi interpreti
del Novecento hanno rigettato questa proposta, ritenendola totalitaria,
lesiva dei piu' profondi affetti individuali, o semplicemente inattuabile.
Ma la Okin, su questo tema, e' una voce fuori dal coro. Secondo lei non e'
possibile sostenere, come G. M. A. Grote, che il sistema di accoppiamento
eugenetico previsto nella Repubblica violenti le piu' profonde emozioni
umane: la famiglia greca non era affatto il centro delle piu' profonde
emozioni umane. Contro Leo Strauss, il quale afferma che il progetto
platonico e' fallimentare semplicemente perche' gli uomini desiderano per
natura avere figli propri, e perche' il controllo politico sul comportamento
eterosessuale mette a tacere le normali pretese dell'eros, ella osserva che
questa critica si regge sul presupposto che la famiglia nucleare
borghese-cristiana sia qualcosa di naturale, quando, nell'Atene del V
secolo, il luogo prevalente dell'amore erano le relazioni omosessuali, non
certo il matrimonio. Grube, A. E. Taylor e Strauss, che trattano la proposta
platonica come inattuabile ed eccessivamente severa, non ricordano che la
vita di una qualsiasi donna greca rispettabile era molto piu' controllata di
quella dei componenti delle classi superiori nella polis ideale della
Repubblica. Le donne ateniesi rimanevano in uno stato di minorita', e il
loro tutore legale poteva, a suo arbitrio, farle sposare a chi voleva o
darle a un bordello. Se leggiamo la Repubblica nel suo contesto storico, ci
accorgiamo che Platone chiede semplicemente agli uomini di scindere i doveri
coniugali dall'affettivita' personale, com'era gia' loro abitudine, ma offre
alle donne quell'accesso paritario all'istruzione e alla vita politica che
era loro rigorosamente negato (3).
Platone, quando pone il problema della famiglia come luogo di potere
privato, va preso sul serio. Perche' mai famosi interpreti del suo pensiero
trascurano circostanze, altrimenti notissime, della vita e del costume
dell'Atene del V secolo? Perche' soltanto una studiosa femminista si ricorda
di leggere il filosofo confrontando le sue proposte con la vita familiare
degli uomini e delle donne del suo tempo, e non con la famiglia nucleare
borghese-cristiana? La tesi fondamentale della Okin puo' rispondere a queste
domande: l'esclusione delle donne e della famiglia dall'oggetto della
filosofia politica induce a dare acriticamente per scontato un modello di
famiglia particolare, storico, e dunque esposto, come ogni altra istituzione
sociale, alla discussione e al superamento, e bisognoso di giustificazione.
*
Women in Western Political Thought vuole dimostrare che esiste un legame fra
l'assunzione della famiglia come istituzione naturale e necessaria - come
qualcosa di dato, al di qua della critica filosofica e della scelta
politica - e una definizione filosofica della donna di tipo naturalistico e
funzionale. La politica e' il luogo della cultura e delle scelte: a coloro
che vi sono ammessi e' riconosciuto un certo grado di liberta'. Chi, di
contro, viene confinato nella natura resta fuori dal mondo della liberta'.
Il modo piu' semplice per sottrarre un'istituzione sociale alla critica e
alla scelta e' darla per scontata e trattarla come "naturale": cosi', il
ruolo di chi fa parte di questa istituzione puo' essere determinato con
strumenti e argomentazioni differenti da quelli impiegati per chi e' ammesso
al mondo della liberta'.
I filosofi politici, per millenni, hanno parlato dei maschi, in quanto
esseri liberi, interrogandosi su che cosa dovessero e potessero fare. Ma
questo interrogativo non e' stato rivolto alle donne, escluse dal mondo
della liberta'. Le donne, pur essendo trattate come soggetti di morale e di
diritto, sono state viste come enti naturali, in relazione all'uomo.
Creature per le quali l'unica domanda appropriata e': "a che cosa servono?".
L'arbitrarieta' del confine fra natura e cultura e la doppia morale
costruita dalla tradizione filosofica occidentale si rivelano insostenibili
non appena la filosofia tenta di produrre giustificazioni universalistiche
(4).
In un mondo ferocemente esclusivo e misogino come quello greco antico,
Platone scopre, quasi suo malgrado, il problema delle donne non appena tenta
di formulare, in base a un canone di uguaglianza geometrica, un paradigma
unitario e riformatore di giustizia politica.
Aristotele - prosegue la Okin - subordina coerentemente la donna all'uomo,
ma cristallizzando il mondo in una gerarchia metafisica e teleologica nella
quale cio' che e' inferiore e' un semplice strumento di cio' che e'
superiore (5).
Ma e' soprattutto interessante vedere in che modo i pensatori
contrattualisti moderni, pur essendo convinti dell'uguaglianza universale
degli uomini, introducano una logica gerarchica e naturalistica quando si
tratta di parlare di donne, di bambini e di famiglia.
Hobbes e Locke vedono lo stato come bisognoso di una giustificazione
filosofico-politica dal punto di vista degli individui, ma assumono la
famiglia come naturale, col semplice, ancorche' paradossale, espediente di
attenuare tacitamente il loro individualismo e l'esigenza di giustificare la
coercizione in base alla volonta' e agli interessi dei singoli. Nella loro
prospettiva, un'autorita' e' legittima solo se e' possibile vederla come
esito di una contrattazione fra individui. Ma il potere familiare del marito
e del padre non e' negoziato, neppure idealmente: percio', a ben guardare,
gli "individui" protagonisti del mondo politico non sono uomini, donne e
bambini, ma capi-famiglia maschi, i quali rappresentano organicamente, senza
essere legittimati da nessun contratto, gli altri membri del nucleo
familiare (6).
I valori fondamentali del pensiero politico di Jean-Jacques Rousseau sono
l'uguaglianza e la liberta', che dovrebbero riavvicinarci alla natura,
ponendo rimedio alla corruzione della civilta': ma questi valori sono negati
alle donne, viste come funzionali ai desideri del maschio e alla
conservazione della famiglia in quanto cellula fondamentale della societa'.
Conseguenza paradossale di questa doppia morale e' che - se vogliamo
criticare Rousseau alla luce di Jean-Jacques - la cellula fondamentale della
societa' diviene il regno della corruzione e della dissimulazione: la donna,
educata alla logica privatistica dell'asservimento al marito e al suo buon
nome, potra' essere tutto tranne che una buona moglie e una buona cittadina
(7).
Infine John Stuart Mill, che pure e' l'unico filosofo liberale a sostenere
l'uguaglianza politica e giuridica delle donne, tratta gli aspetti sociali e
culturali della maternita' come se fossero naturali: questo gli impedisce di
interrogarsi sulla anomalia costituita dal lavoro domestico, non retribuito,
delle donne (8), per la quale solo queste ultime si trovano a dover
scegliere fra famiglia e professione. La Okin approfondisce questo tema
proprio in Justice, Gender and the Family, affrontando autori contemporanei.
La Okin, dunque, parla di problemi di donne, che sono anche problemi
importanti per la filosofia politica: tutto il Novecento si e' agitato, da
Weber in poi, sugli interrogativi connessi ai valori, ai loro conflitti e al
loro relativismo, mentre e' stato assai meno consueto, una volta venuta meno
la tradizione marxista, e fino all'affacciarsi di autrici femministe,
discutere non sull'oggetto, ma sulla modalita' in cui le teorie politiche e
morali costruiscono i propri soggetti. Se disponiamo di una tassonomia
metafisica delle creature, e di una gerarchia naturale fra loro, possiamo
interrogarci sui valori dando per scontati i soggetti per i quali i valori
si pongono; ma se questa tassonomia e' venuta meno, chiedersi: "di chi
stiamo parlando, ora?" puo' diventare una questione tutt'altro che banale.
Questo vale, in particolare, per le teorie politiche moderne che vogliono
essere universalistiche e ugualitarie: per esempio, a chi si riferiscono
Hobbes, Locke o Nozick quando parlano di "individuo"? Piu' in generale: e'
possibile produrre una filosofia pratica ugualitaria coerente, fondandola su
una descrizione esclusiva dei soggetti e dei luoghi di decisione che si
ritengono politici?
*
Il modo di ragionare della Okin in merito ai diritti delle donne imbocca una
via difficile, e dunque speculativamente interessante. Per imporre le donne
all'attenzione della filosofia politica si puo' usare - ed e' stato usato -
un metodo semplice: produrre una descrizione della donna e delle sue
eventuali peculiarita' morali, e riservarle dei diritti corporativi che la
integrino, o, meglio, la coordinino, al mondo politico maschile. Si tratta,
insomma, di trovare la differenza sessuale, garantirla teoreticamente e
sviluppare una morale e un diritto sessuato. Ma, molto significativamente,
la riedizione del 1992 di Women in Western Political Thought reca un
Afterword (9), nel quale, tracciando un bilancio del pensiero femminista
dell'ultimo quindicennio, la Okin mette in luce le ambiguita' di quella
corrente che si basa sulla constatazione teoretica e sulla valorizzazione
pratica di una presunta differenza femminile.
La corrente criticata dalla Okin ha preso spunto dalle ricerche della
psicologa Carol Gilligan, la quale ha creduto di poter generalizzare la tesi
che le donne parlino con un linguaggio morale differente da quello degli
uomini: la femminilita' si associa ad un'etica della cura, concreta e
contestuale, che viene contrapposta all'etica della giustizia, astratta e
universalistica, nonche' tipicamente maschile (10). Questo passaggio dalla
constatazione empirica di una differenza alla sua celebrazione teorica e'
ambiguo, secondo la Okin, sia sul piano filosofico, sia su quello politico.
In primo luogo, il dato empirico viene assunto nel cielo della teoria come
se fosse naturale, senza che venga in mente di interrogarsi sulla sua
origine storica e sociale. In secondo luogo, la celebrazione della
differenza e' un'arma a doppio taglio: se valorizzare le donne significa
valorizzarne la differenza esistente, perche' criticare lo status quo nel
quale questa differenza si e' formata e si colloca?
La critica femminista all'ideale dell'uguaglianza (11), che e' stata
generata da questo sfondo teorico, si basa sulla tesi che l'uguaglianza sia,
semplicemente, la conformita' a un modello gia' dato, e non invece, nel suo
uso giuridico e morale, qualcosa che ha a che vedere con le relazioni e le
possibilita' di persone assunte come libere e dunque in grado di sfuggire
alle classificazioni. In questa prospettiva, la Okin non condivide la tesi
di C. Pateman, per la quale, se per femminismo s'intende una lotta per
l'uguaglianza delle donne come individui, lavoratrici e cittadine, allora e'
difficile trovare una difesa contro coloro che lo accusano di voler
trasformare le donne in uomini (12). Questo modo di ragionare, secondo la
Okin, si basa sulla discutibile premessa che le femministe vogliano
semplicemente estendere alle donne lo stesso status degli uomini, senza
ripensare la sfera non politica della vita domestica e senza interrogarsi
sulle radici storiche della disuguaglianza - interrogativo, questo, che una
attenzione acritica alla differenza tende a dimenticare. Dal suo punto di
vista, la questione fondamentale non e' capire in che cosa le donne sono
diverse, ma chiedersi perche' le donne sono state diversamente trattate:
questo non puo' essere fatto senza una critica politica.
Secondo la Okin, il femminismo della differenza, che insiste sulla
peculiarita' dei problemi delle donne, ha comportato l'autolesionistica
conseguenza culturale di confinare simili questioni nei cosiddetti Women's
Studies. Queste discipline vorrebbero riconoscere e valorizzare la
differenza sessuale, ma rischiano di rinchiudere le questioni femminili in
ghetti accademici, la cui presenza autorizza la storia e la filosofia
politica istituzionali a disinteressarsi di tutto cio' che concerne le
donne, come se queste non facessero parte della storia dell'umanita' e non
fossero soggetti - e oggetti - politici. Le domande sull'identificazione del
soggetto della morale e del diritto, e sul rapporto fra il potere pubblico e
formale dello stato e quello privato e largamente informale della famiglia
non sono soltanto cose da donne, proprio perche' nessuna differenza data e
nessuna istituzione radicata puo' riempire coerentemente quello spazio della
liberta', cioe' della storia e del progetto, che deve essere presupposto da
qualsiasi teoria politica normativa.
*
Susan Moller Okin, che, nel suo corso di Political Science presso la
Stanford University, parla delle donne nel pensiero politico occidentale
(13), non si propone di celebrare e valorizzare differenze esistenti, in una
prospettiva particolaristica, ma vuole rivelare il carattere storico e
politico del problema del genere, inteso come percezione sociale del sesso.
Per questo, e' fondamentale affrontare il tema della famiglia e del suo
potere: la famiglia e' il luogo in cui ha origine la divisione sessuale del
lavoro e in cui si costruisce ricorsivamente la percezione sociale del sesso
(genere). Il problema della famiglia e' politico: la distinzione fra
pubblico e privato, sulla quale, per tanto secoli, ha riposato l'ideologia
della spoliticizzazione della famiglia, non soltanto e' arbitraria, ma
deriva essa stessa da una decisione politica (14). Il rifiuto di una logica
corporativa e particolaristica - della "zoologia dell'umanita'" (15), per
dirla con il giovane Marx - conduce la Okin, nella sua ultima produzione, a
discutere il multiculturalismo, perche' le sue classificazioni sono in
potenziale contrasto con l'autodeterminazione delle donne (16): il rispetto
per le culture non e' identico al rispetto per le persone.
*
Il libro qui tradotto e' soltanto una tappa di un itinerario filosofico
complessivo, ma offre spunti per almeno due riflessioni possibili, a seconda
che si ritenga o no affidabile, in relazione agli scopi critici della sua
teoria, la fondazione rawlsiana dell'autrice.
Justice, Gender and the Family, risalendo al 1989, precede di qualche anno
la pubblicazione di Political Liberalism (1993) (17), testo nel quale Rawls
chiarisce, in risposta alle critiche ricevute, le tesi di A Theory of
Justice (1971). Secondo la teoria della giustizia di Rawls, le regole di una
societa' giusta sono quelle che potrebbero stipulare idealmente individui
posti in una "posizione originaria", nella quale un velo d'ignoranza copre
tutte le loro particolarita' storiche e sociali. In questo modo, viene
pattuita una giustizia equa e senza privilegi: sarebbe imprudente stabilire
norme che discriminano, ad esempio, donne o neri, perche', dietro il velo di
ignoranza, a qualsiasi contraente potrebbe capitare di essere egli stesso
donna o nero. In Political Liberalism, Rawls difende questa tesi dalle
critiche dei communitarians, che lo accusavano di descrivere i suoi
contraenti ideali in una maniera talmente rarefatta da non avere nulla a che
vedere con gli individui reali per i quali dovrebbe valere la sua giustizia:
nelle nostre societa' pluralistiche, il contratto serve a produrre una
mediazione politica fra i diversi sistemi di valore concretamente esistenti.
Ma questa apologia comporta l'esplicita ammissione che la costruzione
contrattualistica non e' una vera e propria posizione normativa, ma un mero
artificio politico, il quale richiede che ci siano sistemi di valore
plurali, esistenti, e assunti nella discussione filosofica come dati, al di
qua di ogni critica.
La posizione originaria con i suoi vincoli e' solo un espediente per
definire il mondo comune della giustizia pubblica. L'origine dei sistemi di
valore particolari, l'acculturazione e l'educazione morale primaria sono
questioni che, a rigore, non riguardano la filosofia politica di Rawls: il
problema politico della giustizia si pone solo a condizione che ci siano
sistemi di valore diversi, sorti prima e al di fuori del negoziato politico:
sorti, percio', in comunita' non contrattuali, come la famiglia. Usare
strumenti rawlsiani - come fa la Okin - per porre il problema della famiglia
come questione di giustizia politica significa essere, nei confronti
dell'esistente, molto piu' radicali e molto piu' prescrittivi di Rawls.
Significa trattare il contratto come una norma e non come un simbolo dei
"nostri" valori comuni.
*
La Okin pensa che la teoria della giustizia rawlsiana possa essere un utile
strumento per una teoria normativa della giustizia, per due motivi
principali (18): in primo luogo, Rawls riconosce la famiglia come una delle
istituzioni sociali fondamentali che devono essere oggetto della giustizia
politica, anche se ne da' per scontate le strutture esistenti. In secondo
luogo, l'espediente della contrattazione dietro un velo d'ignoranza non solo
permette di sospendere, in quella sede, il genere, ma, soprattutto, mostra
che giustizia e cura non sono prospettive reciprocamente inconciliabili.
Infatti, sospendere il genere e altri aspetti concreti della condizione
delle persone significa chiedere a ciascuno di mettersi nei panni di un gran
numero di altri e considerare il loro punto di vista, nel decidere i
principi di giustizia: se mi capitasse, per esempio, di essere donna,
troverei accettabile la divisione sessuale del lavoro domestico?
Secondo la Okin, in base al neocontrattualismo cosi' riformulato, e'
possibile costruire una teoria liberale della giustizia, che richieda una
distribuzione equa del lavoro domestico (19), e che connetta cio' che
avviene nella famiglia al mondo della politica e del lavoro, finora
strutturato in base al presupposto implicito che il lavoratore sia un uomo
con la moglie a casa. Questa prima proposta, costruita su Rawls e dunque, di
fatto, sui valori costituzionali della societa' americana, puo' certo essere
tacciata di provincialismo filosofico, ma - nei limiti della sua provincia -
ha gia' il merito di sottolineare il ruolo del comportamento gratuito (20) e
non contrattuale non solo entro la famiglia, ma anche nel mondo
dell'economia. La stessa organizzazione attuale del mondo del lavoro si basa
su presupposti non completamente contrattualistici, e mutarla per rendere
giusta la vita familiare e per rispondere alle esigenze vitali delle persone
non comporterebbe certo una gran rivoluzione concettuale (21).
Ma le tesi della Okin potrebbero offrire spunti di riflessione assai piu'
radicali se investissero il problema speculativo della relazione fra
antropologia e liberta', invece di basarsi implicitamente e ambiguamente sui
valori americani (22) e sulla richiesta di una loro realizzazione meno
settoriale e piu' coerente. Com'e' consapevole la stessa Okin, per dare a
tutti la possibilita' dell'autodeterminazione non e' sufficiente suddividere
l'antropologia in un'andrologia e in una ginecologia morale, o frammentarla
in una miriade di culture e stili di vita riconosciuti. In questo modo si
ottiene, tutt'al piu', una zoologia dell'umanita', per la quale le persone
godono di diritti e liberta' solo nei confini fissati dalla loro tassonomia.
E siccome le tassonomie sono classificazioni finite e attuali, una simile
prospettiva disconoscera' fatalmente le variazioni non classificate e quelle
non classificabili, perche' ancora nel regno della possibilita'. Il problema
dell'autodeterminazione dei soggetti morali e giuridici si pone genuinamente
solo nella misura in cui ci si rende conto che l'aspetto fondamentale della
liberta' come autonomia non e' fiorire lungo una linea di sviluppo
determinata, secondo una qualche classificazione teoretica - aristotelica o,
piu' modestamente, rawlsiana -, ma poter andare oltre la propria immagine
sociale. Le comunita' etiche - a partire dalla famiglia - non possono mai
essere intese come "naturali" e come date, sulla scorta di constatazioni
teoretiche, ma vanno sempre viste come costruzioni che, per diventare
etiche, devono essere aperte non solo ad una mera contrattazione ideale, ma
soprattutto alla discussione e alla decisione effettiva, su un piede di
liberta' e di uguaglianza. Percio', devono sempre interrogarsi su come
comprendere e contenere gli strumenti che rendano possibile il loro
superamento.
*
Si potrebbe obiettare che vedere la famiglia come un'associazione non piu'
naturale, ma convenzionale e politicamente rilevante, conduce ad abbattere
la distinzione fra pubblico e privato, cioe' quella linea di confine sulla
quale il liberalismo moderno ha combattuto la sua battaglia contro lo stato
totalitario e il moralismo giuridico. Si potrebbe, anzi, sostenere che sia
necessario lasciare, al di la' dei confini dello stato, degli ambiti di
poteri informali e naturali, perche' il potere dello stato possa essere
formalizzato e convenzionalmente limitato. E poco importa se il prezzo di
questa limitazione e' pagato per lo piu' dalle donne e dai bambini.
Una tesi del genere riposa sulla convinzione che l'esito inevitabile di una
critica politica alla famiglia sia l'assimilazione e la confusione fra
famiglia e stato: si presuppone, cioe', che la forza della societa' politica
convenzionale possa essere contrastata solo da comunita' pensate come
naturali e quindi intangibili.
Ma le cose non stanno esattamente cosi': per rendercene conto, puo' essere
d'aiuto un testo kantiano non molto frequentato dai filosofi politici (23),
La religione entro i limiti della sola ragione (24). Qui, Kant distingue fra
uno stato giuridico-civile e uno stato etico-civile; e aggiunge allo stato
di natura giuridico della tradizione contrattualistica uno stato di natura
etico. Per uscire dallo stato di natura giuridico occorre un diritto
garantito formalmente, che comporta il monopolio pubblico della coercizione,
e dunque l'abolizione della coercizione privata. Per uscire dallo stato di
natura etico, cioe' per formare comunita' etiche, e' assolutamente
indispensabile la liberta' individuale, perche' la coercizione puo' imporre
un comportamento esteriore, ma non certo la disposizione interiore che
caratterizza la virtu'. Ma questo requisito concerne tanto la coercizione
pubblica statale, quanto, e a maggior ragione, la coercizione privata
interindividuale.
Le comunita' etiche, per essere tali, non devono basarsi sulla coercizione.
Non a caso, il problema del controllo e della formalizzazione della
coercizione fra gli individui ricade nella sfera di competenza dello stato,
e non in quella delle comunita' etiche. Anzi, si puo' pensare a uno stato di
natura etico accanto a quello giuridico proprio perche' lo spazio delle
comunita' etiche si puo' costituire solo a condizione che sia gia' stato
posto e risolto politicamente il problema della coercizione e della
manipolazione interindividuali. Non esistono comunita' etiche "naturali":
anche le comunita' etiche, secondo Kant, sono qualcosa che dobbiamo
costruire, sulla base di una liberta' che non si trova nella natura, ma puo'
essere da noi conosciuta solo come presupposto della legge. Ma da cio' segue
che uno stato che accogliesse in se disuguaglianze formatesi naturalmente,
solo per rispettare il santuario della famiglia, accetterebbe, da una parte,
di farsi dettar legge da una zona franca allo stato di natura, con sue
proprie forme, non statali, di coercizione, e dall'altra, impedirebbe che in
questa zona si costituissero le condizioni di liberta' necessarie al sorgere
di una genuina comunita' etica.
Per questo, trattare la famiglia come una questione politica non conduce
necessariamente a riscrivere la Repubblica di Platone: tutt'al piu', ci puo'
dare lo stimolo a rileggerla - come ha fatto la Okin - con uno spirito
simile a quello di Kant (25), piuttosto che alla maniera di chi ha voluto
ridurre un testo filosofico fondamentale per il pensiero occidentale ad uno
spauracchio totalitario (26).
*
Note
1. G. W. F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, trad. it. di G.
Marini, Roma-Bari, Laterza, 1987, Prefazione, p. 14.
2. S. M. Okin, Women in Western Political Thought, Princeton, Princeton UP,
1979, 1992.
3. Ibidem, pp. 28-50.
4. Ibidem, pp. 3-12.
5. Ibidem, pp. 73-96.
6. Ibidem, pp. 197-201. Su questo tema v. anche C. Pateman, The Sexual
Contract, Stanford, Stanford UP, 1988 (trad. it. di C. Biasini, Il contratto
sessuale, Roma, Editori Riuniti, 1997).
7. S. M. Okin, Women in Western Political Thought, cit., pp. 99-194. Sul
tema v. anche N. O'Keohane, "But for her Sex...": the Domestication of
Sophie, in J. MacAdam, M. Neumann, G. Le France, Trent Rousseau Papers,
Ottawa, University of Ottawa Press, pp.135-145, nonche' L. Lange, Rousseau
and Modern Feminism, in M. L. Shanley, C. Pateman (eds), Feminist
Interpretations and Political Theory, Cambridge, Polity Press, 1996, pp.
95-109.
8. S. M. Okin, Women in Western Political Thought, cit., pp. 201-231.
9. S. M. Okin, Women in Western Political Thought, pp. 309-340.
10. C. Gilligan, In a Different Voice, Cambridge (Mass.), Harvard UP, 1982
(trad. it. Con voce di donna, Milano, Feltrinelli, 1987). Vale la pena
ricordare la critica alla Gilligan compiuta da Susan Moller Okin in Thinking
like a Woman, in D. L. Rhode (ed.), Theoretical Perspectives on Sexual
Difference, New Haven, Yale UP, 1990, pp. 145-159: Per una prospettiva
italiana favorevole ad una declinazione femminile dell'etica cfr. V. Franco,
Etiche possibili, Milano, Donzelli, 1996.
11. Per una prospettiva italiana v. ad esempio T. Pitch, Diritto e diritti.
Un percorso nel dibattito femminista, "Democrazia e diritto", 1993, 33/2,
pp. 3-44, nonche', nello stesso numero, L. Ferrajoli, La differenza sessuale
e le garanzie dell'uguaglianza, pp. 49-73, e L. Gianformaggio, Correggere le
disuguaglianze, valorizzare le differenze: superamento o rafforzamento
dell'uguaglianza?, "Democrazia e diritto", 1, 1996, pp. 53-71.
12. C. Pateman, Introduction a C. Pateman, E. Gross (eds.), Feminist
Challenges: Social and Political Theory, Boston, Northwestern UP,1987, pp.
7-8.
13. V. a questo proposito il capitolo dedicato al femminismo accademico da
M. C. Nussbaum, in Cultivating Humanity, Harvard UP, Cambridge,
Massachusetts,1997.
14. Cfr. il VI capitolo di questo volume. La Okin sostiene che l'insistenza
sulla politicita' del personale non elimina il concetto di privacy, come
sfera di autodeterminazione individuale: perche' nel mondo privato sia
possibile l'autodeterminazione di ciascuno, tutti devono essere uguali. E
l'uguaglianza non e' un dato naturale, ma una costruzione politica e morale.
Sul carattere politico della distinzione fra pubblico e privato v. almeno F.
E. Olsen, The Myth of State Intervention in the Family, in "University of
Michigan Journal of Law Reform", 18/4, 1985, pp. 835-864.
15. MEW, I, 205, [114].
16. Si veda ad esempio S. M. Okin, Recognizing Women's Rights as Human
Rights, in "APA Newsletters", Vol. 97/2 (Spring, 1998); Is Multiculturalism
Bad for Women? When minority cultures win group rights, women lose out,
"Boston Review", October/November 1997 (trad. it. presso
http://lgxserver.uniba.it/lei/filpol/okin.htm, con una mia scheda
sull'autrice e un link al sito della "Boston Review", che ospita un
dibattito sull'articolo in questione); Un conflitto sui diritti umani
fondamentali? I diritti umani delle donne, la formazione dell'identita' e le
differenze culturali e religiose, in "Filosofia e questioni pubbliche", 3/1,
pp. 5-28, con un dibattito sul testo; infine S.M. Okin, Feminism and
Multiculturalism: Some Tensions, in "Ethics", 108/4, 1998.
17. J. Rawls, Political Liberalism, New York, Columbia University Press,
1993 (trad. it. di G. Rigamonti, Liberalismo politico, Milano, Comunita',
1994, a cura di S. Veca).
18. Cfr. il V capitolo di questo volume.
19. Si veda, sul tema della famiglia, l'integrazione di I. M. Young alla
proposta della Okin: eliminare ogni vestigia di diritti sessuali, e trattare
la famiglia come una "domestic partnership" che non abbia a che vedere col
numero e col genere, ma solo coll'effettiva collaborazione e condivisione di
risorse vitali (Iris M. Young, Reflections on Families in the Age of Murphy
Brown: on Justice, Gender and Sexuality, in Ead., Intersecting Voices,
Princeton, Princeton UP, 1997, pp. 95-113).
20. Si veda in particolare il brillante argomento con cui la Okin riduce
alla contraddizione la tesi nozickiana che identifica la liberta' delle
persone con la proprieta' privata e al titolo legittimo su di essa (cap. IV
di questo volume).
21. Si veda l'ultimo capitolo di questo volume. Sul tema cfr. anche V. Held,
Feminist Morality: Transforming Culture, Society and Politics, Chicago, The
University of Chicago Press, 1993 (trad.it. di L. Cornalba, Etica
femminista, Milano, Feltrinelli, 1997).
22. V. in particolare l'incipit del I capitolo di questo volume.
23. Cfr. G. Marini, Kant e il diritto cosmopolitico, "Iride", IX, 17, 1996,
pp. 126-140.
24. I. Kant, Die Religion innerhalb der Grenzen der blossen Vernunft,
B131/A123-B134/A126 (trad. it. di A. Poggi, riv. da M. Olivetti, La
religione entro i limiti della sola ragione, Roma-Bari, Laterza, 1985, pp.
101-102).
25. Si veda il celebre omaggio kantiano alla Repubblica di Platone in Kritik
der reinen Vernunft, B370/A314-B374/A317 (trad. it. di G. Gentile e G.
Lombardo Radice, Critica della ragion pura, Roma-Bari, Laterza, 1985, pp.
300-301).
26. K. R. Popper, The Open Society and Its Enemies, The Spell of Plat, New
York-Evanston, Harper Torchbooks, 1962, pp. 138-144 (trad. it. di R.
Pavetto, La societa' aperta e i suoi nemici, vol. I. Platone totalitario,
pp. 198-205), cui puo' essere contrapposta la lettura neokantiana  di E.
Cassirer in The Myth of the State, New Haven-London, Yale University Press,
1946, pp. 75-76 (trad. it. di C. Pellizzi, Il mito dello stato, Milano,
Longanesi, 1971, pp. 138-139).

2. RIFLESSIONE. CHIARA ZAMBONI: TRA VISIBILE E INVISIBILE
[Dalla rivista "Per amore del mondo" (nel sito: www.diotimafilosofe.it)
riprendiamo il seguente articolo di Chiara Zamboni. Chiara Zamboni e'
docente di filosofia del linguaggio all'Universita' di Verona, partecipa
alla comunita' filosofica femminile di "Diotima". Tra le opere di Chiara
Zamboni: Favole e immagini della matematica, Adriatica, 1984; Interrogando
la cosa. Riflessioni a partire da Martin Heidegger e Simone Weil, IPL, 1993;
L'azione perfetta, Centro Virginia Woolf, Roma 1994; La filosofia donna,
Demetra, Colognola ai Colli (Vr) 1997]

Parlo dell'ultimo libro di Diotima intitolato Approfittare dell'assenza.
Punti di avvistamento sulla tradizione (Liguori, Napoli 2002). Mi piacerebbe
che qualcuno riprendesse i temi del libro a partire da queste riflessioni.
So che scrivendo queste note ho dialogato tra me e me con donne e uomini che
il libro l'hanno letto e hanno trovato il modo di parlarcene in modo
attento. Per me questo e' stato un orientamento prezioso.
Accettando la provocazione di Carla Lonzi ad approfittare dell'assenza delle
donne da duemila anni di storia, ci siamo trovate a fare i conti con la
storia e con la tradizione a partire dall'esperienza femminile. Nostra e di
altre.
Tradizione: le generazioni passate hanno creato saperi e comportamenti. La
tradizione e' cio' che ci viene trasmesso di questi saperi e pratiche.
*
Nel nostro libro la questione della tradizione e' affrontata in particolare
in due testi. Uno e' Tabula rasa di Annarosa Buttarelli. Fare tabula rasa
significa sospendere il riferimento a testi e pratiche del passato, che ci
vengono invece presentati come vincolanti per quel che vogliamo dire e fare
nel presente. Il valore della tradizione ci obbligherebbe a confrontarci
necessariamente con essi se vogliamo che quel che diciamo e facciamo venga
considerato degno di attenzione. Fare vuoto dentro di se' rispetto a questa
autorita' della tradizione: questa e' una pratica che Annarosa suggerisce,
riprendendola dalla mistica.
Allora, fatto il vuoto dentro di se', ci fa da guida non piu' la voce
autorevole del passato ma il grande libro dell'esperienza. Questo e' un
passaggio simbolico che e' presente non solo nel nostro libro ma anche in
molti scritti, testi, ragionamenti di donne che si sono mosse con molta
autorita', fondando questa loro liberta' nella fedelta' all'esperienza, che
si incerniera nel presente.
Il secondo testo sulla tradizione e' di Anna Maria Piussi. Lei osserva
giustamente che dopo il femminismo ci troviamo nella necessita' di sottrarci
non solo alla cultura maschile, che ha costruito canoni volendo imporre
tradizioni, ma anche a quell'accumulo di sapere, che dal femminismo in poi
molte hanno prodotto, e che ora alcune indicano come un dato inaggirabile.
Tuttavia trincerarsi dietro la tradizione femminista e' piu' che altro un
segnale che molte hanno perso la capacita' di stare in un rapporto sorgivo
con il sapere, che si nutre del senso di quel che ci capita nel presente.
L'instaurarsi di una tradizione femminista mi mette in contraddizione
perche' cio' che e' diventato sapere accumulato e' il prodotto di un
percorso esistenziale e politico a cui io stessa ho partecipato ed  ora mi
viene proposto dall'esterno come oggettivo. E' una contraddizione nuova,
segnata dall'evento del femminismo. Cosa ben diversa dal radicamento che
ognuna di noi ritrova in una genealogia femminile - come scrive Ida
Dominijanni -, che e' legame vivo con donne che ci hanno preceduto, ben
lontano da una tradizione imposta.
Ambiguita' della tradizione dunque. Eppure noi tutte siamo - e siamo state -
lettrici appassionate di alcuni grandi libri del passato. Hanno inciso e
sono stati ripresi dalla tradizione - e' vero -, ma possiamo avere un
rapporto con loro che metta da parte gli imperativi della tradizione e
averne una lettura misurata da altro: il rimando all'esperienza, il senso di
una rivelazione. Allora si tratta di saper dire quale sia stato il legame
forte per cui ci hanno parlato in una lettura diretta, a partire dal nostro
presente e dal nostro contesto.
Ho in mente come facevano le beghine della Francia del nord, delle Fiandre e
della Germania nel Duecento: leggevano con altre l'antico e il nuovo
Testamento lasciando che parlasse direttamente alla loro anima, senza tener
conto di quel che gli ecclesiastici del tempo ne dicevano. Non volevano
criticare la chiesa, anzi, ma semplicemente indicavano nella risonanza che
aveva in loro la parola scritta dei testi sacri la mediazione essenziale
piu' importante ancora della guida dei padri spirituali e dei confessori.
Solo cosi' le parole del testo erano vissute come parole di verita'. E non
e' forse vero che ci capita di leggere romanzi, racconti, pagine di
filosofia che ci illuminano come una rivelazione? E che ne parliamo allora
con passione alle amiche e amici?
*
E' in questo senso che in Approfittare dell'assenza abbiamo cercato di
mostrare come siamo entrate in risonanza con alcuni libri e testi e come a
partire da li' sia stato possibile indicare delle mediazioni nuove, diverse
da quelle della tradizione.
Ci sono vie privilegiate per fare questo? Non ci sono strade a senso unico.
Wanda Tommasi parla di un amore per il testo, che lo stravolge, lo
incorpora, lo fa proprio, senza piu' tenere i confini tra se' e quel che si
e' letto.
Luisa Muraro si fa guidare da una domanda nel leggere il Simposio di
Platone: chi e' Diotima, a mezzo tra l'esistenza storica e la non esistenza?
La domanda guida la lettura e questa la conduce la' dove la domanda stessa
viene superata. Si tratta di un processo.
Leggendo il vangelo di Matteo con Francesca Doria mi ha guidato l'ascolto di
come l'anima si orientava, quali erano i punti sui quali insisteva. E con
Francesca ritornavamo poi al giudizio, alle mediazioni, ma a partire da quel
primo orientamento inconscio e a suo modo passivo.
Vita Cosentino cerca di comprendere il fascino esercitato su di lei dagli
scritti di don Milani e la distanza maturata a causa della propria
attenzione alla soggettivita' femminile.
Diana Sartori si fa guidare nel leggere La dichiarazione dei diritti
dell'uomo del 1789 dalla logica del dono. Se quel testo ha donato molto,
cio' impegna ad una restituzione e ad un rilancio, che non e' pero' quello
previsto interno al diritto. Al dono dei diritti lei restituisce il dono -
non equivalente, perche' piu' ampio - dell'obbligo.
Come si vede e' una costellazione di modi di lettura che rendono vivo un
testo, opponendosi proprio percio' a farne un classico, un caposaldo della
tradizione come vorrebbe il canone.
*
Il nostro libro parte dal presente cercando un gioco simbolico nei confronti
della tradizione, percio' direi che sono le relazioni nel presente il nostro
inizio. E questo e' un inizio che raccoglie e lega, e dunque in un certo
senso religioso - nel senso etimologico del termine -, ma per avere liberta'
dalla tradizione, piuttosto che iniziarne un'altra.
Diversa e' la questione della storia e del legame con cui stare in rapporto
ad essa. Punto di vista del libro: per le donne la storia non e' tutto.
Riferimento: l'invito di Carla Lonzi ad approfittare della nostra assenza da
essa. In che senso?
"A mezza strada fra l'esistenza storica documentata e l'inesistenza, in
mezzo a date incerte, professioni senza nome, leggende oscure, ci sono molte
donne che mi interessano, una e' mia madre" scrive Luisa Muraro. Di fronte a
questa condizione tra esistenza storica documentata e la vita nella sua
imprecisione di fatti sfumati quale posizione simbolica prendere?
Negli anni '70 le storiche, di fronte a questo dilemma, hanno scelto di
portare a visibilita' storica l'esistenza delle donne. Partendo dal
presupposto che l'assenza fosse un difetto, una mancanza di attenzione.
Questo ha prodotto una grande quantita' di lavori, guidati dal desiderio di
dimostrare la presenza delle donne nella storia. Questa onda lunga, che ha
moltiplicato le ricerche, si e' pero' ritirata, quanto ad invenzione di
pensiero. Questo per il fatto che non c'e' stato un rilancio: non c'e' stata
una presa in carico di trasformazione di sguardo su che cosa significhi fare
storia a partire dalla differenza femminile oggi.
Vorrei valorizzare pero' le storiche che hanno rifiutato la mossa di
includere le donne nella storia degli uomini. Penso a certi studi pubblicati
sulla rivista "Memoria", che, volendo sottrarsi all'idea di una inclusione
simmetrica all'esclusione, hanno messo in primo piano il vivere quotidiano,
la cultura materiale, in cui le donne sono state protagoniste. Altre, come
Luisa Passerini, hanno messo al centro la storia orale, costruita su
narrazioni personali, criticando il concetto di storia unica e sottolineando
la molteplicita' di storie, che si incernierano con la memoria. Altre hanno
elaborato l'idea di un andamento carsico della storia delle donne, che ora
affiora e ora si inabissa.
Il nostro libro si inserisce in questo dibattito.
*
Siamo partite dal fatto che il legame delle donne con la storia e' fatto di
intermittenze, senza continuita' ne' prevedibilita'.
Quando parlo di intermittenza non faccio tanto riferimento ad una presenza
piu' o meno forte delle donne nelle narrazioni storiche, nelle cronache e
nei documenti, quanto ad un certo legame con l'invisibile che corre
attraverso l'esperienza femminile e spinge sullo sfondo il bisogno di
visibilita' a tutti i costi. Nel nostro libro questo legame con l'invisibile
e' letto in modi diversi. E' esso ad essere discontinuo.
Sicuramente e' ancora una volta questo legame con l'invisibile a rendere
simbolici quei momenti in cui le donne creano luoghi tra privato e pubblico:
periodi che sono innovativi e fedeli all'esperienza, e che allo stesso tempo
si sottraggono a quella divisione tra privato e pubblico, che risulta invece
cosi' fondamentale nel modo maschile di fare storia. Sono momenti che hanno
avuto nell'invisibile la loro sorgente.
Di questa inclinazione maschile a separare pubblico da privato fecero le
spese le beghine. Avevano creato una nuova pratica religiosa costituita da
piccole comunita' aperte alla citta', in uno spazio simbolico  diverso dai
recinti visibili di un ordine monastico e d'altra parte con uno scambio
attivo con la citta' molto diverso da un vivere privato. Vivevano della
tessitura, aiutavano i malati, la loro casa era frequentata da chi voleva
venirci. E' interessante come la chiesa reagi': dapprima le invito' ad
entrare in ordini monastici femminili, creati quasi appositamente, perche'
in questo modo la loro esperienza religiosa fosse regolata in modo
esplicito, pubblico, lasciando al solo recinto dell'intimita' piu' segreta
la loro vita spirituale. La dichiarazione di eresia fu per chi non accetto'
tale invito. L'autonomia creatrice affidata al desiderio e ai legami liberi
tra donne era troppo provocatoria.
*
Certo l'idea di intermittenza puo' suggerire un senso di frammentarieta': si
tratterebbe di brevi periodi senza legame tra loro. Non ci sarebbe piu'
percio' un filo conduttore nella modificazione storica e dunque verrebbe
meno anche la possibilita' di pensare una storicita' "altra", a partire
dalla differenza femminile.
Io vedo un senso "aurorale", sorgivo della storia proprio a partire da quei
momenti intermittenti. Si tratta di pensare ad un senso della storia che
ponga al centro le singole pratiche nelle quali le donne abbiamo avuto
immaginazione, autorita', capacita' di reggere nel tempo lo stile di vita
assunto. Momenti che si sono simbolicamente sottratti alla spartizione tra
ordinamenti visibili da un lato e dall'altro esperienze solo intime. E
questo con delle risonanze con la sessualita' femminile schiusa come un
fiore tra interno ed esterno.
Di un momento intermittente c'e' un esempio molto bello, nel libro, portato
da Luisa Muraro. Si tratta delle Madres de Plaza de Mayo, a Buenos Aires. Da
ventiquattro anni ogni giovedi' suonano i campanelli di coloro che ritengono
gli assassini dei loro figli. Cio' ha avuto efficacia politica in Argentina,
e lo si vede dalla decisione del governo di affrontare finalmente questa
questione. Del futuro di questa pratica non si preoccupano, ne' vogliono
insegnarla, trasmetterla ad altri. Essa vive, finche' esse sentono il
desiderio e la forza per compierla. Sono loro ad esserne mediazione vivente.
Poi ci sara' altro, Di questo non si preoccupano.
*
Si tratta dunque di cercare un senso nella storia ragionando su pratiche,
che non sono affidate ad ordinamenti visibili, ma al desiderio di chi se ne
fa mediazione viva e cerca l'invisibile nel mondo, di cui c'e' gia' traccia,
dandogli spazio simbolico nel mondo stesso e la sua necessita'. E che
terminano quando viene meno desiderio e forza. Un'opera, una pratica: la
maggior parte delle donne sanno che non e' qualcosa di compiuto e del tutto
oggettivabile ed esprimibile in una historia rerum gestarum, ovvero nelle
narrazioni di azioni e fatti compiuti, sulla quale molti uomini hanno
scommesso. Cio' che e' esterno a se' e' forse per loro piu' riconoscibile
proprio come la loro sessualita'? Io so che le pratiche sono visibili e al
medesimo tempo mai veramente concluse, oggettivabili: sono percorsi sempre
aperti, di cui nessuno e' l'autore singolo perche' in esse valgono le
relazioni e il processo. Tra visibile e invisibile.

3. MEMORIA. DOMINIQUE VIDAL: LE DONNE DELLA ROSENSTRASSE
[Riprendiamo il seguente articolo da "Le Monde diplomatique" (edizione
italiana), maggio 2005 (disponibile nel sito:
www.ilmanifesto.it/MondeDiplo). Dominique Vidal, giornalista e saggista, e'
redattore-capo aggiunto del prestigioso periodico]

All'alba del 27 febbraio 1943, a Berlino (1), le SS della Leibstandarte
Hitler, incaricate della sicurezza personale del Fuehrer, prendono posto su
camion coperti che partono in tutte le direzioni. La loro missione:
arrestare a casa o sul posto di lavoro, con l'aiuto della Gestapo e della
polizia municipale, gli ultimi ebrei della capitale del III Reich. Alcuni
lavorano in fabbriche vitali per la Wehrmacht; altri, sposati a tedeschi,
sono sfuggiti alle leggi di Norimberga del 1935. Ministro della propaganda e
Gauleiter (capo regionale) del partito nazional-socialista, Joseph Goebbels,
che da dieci anni sogna di eliminare gli ebrei dalla sua citta', puo'
finalmente mettere fine a queste eccezioni.
La sera, circa 5.000 persone sono gia' state rastrellate, di cui 1.700 sono
mariti di donne tedesche. Alcuni sono gia' in viaggio verso i campi della
morte. Altri, in attesa di essere deportati, vengono ammassati in due
carceri improvvisati, uno ai numeri 2-4 della Rosenstrasse (2), dove aveva
sede un ufficio di assistenza sociale della comunita' ebraica. Gia' nel
pomeriggio, decine di donne, preoccupate di non vedere rientrare i mariti,
si riuniscono nella strada: ben presto se ne contano 200. Alcune ci passano
la notte...
Il giorno dopo sono due volte piu' numerose... e piu' decise. Il fatto che
gli uffici per gli affari ebraici della Gestapo si trovino a due passi,
nella Burgstrasse, non impedisce loro di gridare in coro: "Ridateci i nostri
mariti". Ne' la presenza delle SS, ne' la chiusura della vicina stazione
della metro di Boerse, e neppure i terribili bombardamenti aerei britannici
della serata, impediscono loro di sfidare il regime. Lo storico David
Bankier, testimone a sostegno, racconta (3) di come molte donne si siano
scontrate con gli agenti della Gestapo e "osino dirgli di andare loro sul
fronte dell'Est e di lasciare in pace i vecchi ebrei" - ma "la maggior parte
dei passanti, aggiunge, guardava la scena con totale indifferenza".
Nel suo diario, il 2 marzo, Goebbels scrive: "Stiamo cacciando
definitivamente gli ebrei da Berlino. Domenica scorsa li abbiamo presi tutti
con una retata e li stiamo mandando rapidamente all'Est". Significa fare i
conti senza la folla che aumenta nella Rosenstrasse. Quando le SS minacciano
di sparare, le donne si rifugiano sotto i portici o sotto un viadotto
vicino, poi ritornano: "Vogliamo i nostri mariti", esigono in coro.
Il 5 marzo, il regime tenta le ultime manovre di intimidazione. La Gestapo
allontana brutalmente decine di manifestanti. Poi una jeep, occupata da
quattro SS in uniforme e casco d'acciaio, armati di mitragliatrici, carica
la folla sparando. Le donne fuggono e si disperdono, per poi tornare davanti
al carcere. Alcune, incoraggiate dalla forza dimostrata dal movimento, si
fanno coraggio fino a chiedere alla Gestapo notizie dei loro mariti. Altre
entrano addirittura nel palazzo della Rosenstrasse.
"Continuavamo a sperare che i nostri mariti potessero tornare a casa e che
non fossero deportati", testimonia una manifestante.
La cosa piu' incredibile e' che non sbagliano. Il 6 marzo, non solo la
dittatura mette fine agli arresti e alle deportazioni che erano proseguite
fino ad allora, ma ordina la liberazione di tutti gli ebrei sposati a
tedesche - e ne fara' anche ricercare venticinque ad Auschwitz, che potranno
ritornare a casa. Quasi tutti, del resto, sopravvivranno alla guerra.
Ufficialmente, la Gestapo di Berlino ha semplicemente commesso un abuso,
rastrellando e deportando ebrei sposati a tedesche e il potere,
naturalmente, ha rimesso le cose a posto.
La realta' non ha niente a che vedere con la favola dell'"errore"
burocratico corretto. E' Goebbels stesso che, dopo avere ordinato la retata,
la sospende a seguito di un incontro con Adolf Hitler, avvenuto il 3 marzo
nella sua Wolfschanze (tana del lupo). Perche'?
La risposta va forse cercata nel momento in cui si svolge la vicenda:
immediatamente dopo la disfatta di Stalingrado. Il morale dei tedeschi e' a
terra. I dirigenti nazisti temono soprattutto una cosa: che il "fronte
interno" crolli, come nel 1917, sotto le bordate dell'Armata rossa e i
bombardamenti anglo-americani. La resistenza coraggiosa, ma relativamente
apolitica, delle donne della Rosenstrasse rischia di estendersi a macchia
d'olio: e se altre proteste si levassero contro le deportazioni in massa
degli ebrei, che hanno luogo in molte citta' tedesche?
"A Berlino - tende a mitigare lo storico Peter Longerich (4) - furono
temporaneamente internati, in due immobili della comunita' ebraica,
centinaia di ebrei coniugati a non ebree, con l'evidente intento di
scambiarli con quegli impiegati della comunita' che dovevano essere
deportati. La spontanea protesta pubblica di membri di questo gruppo
radunatisi davanti al palazzo della Rosenstrasse, per quanto notevole sia
stata l'azione, non fu certo la causa della liberazione degli uomini
incarcerati, perche' a quell'epoca non era prevista la deportazione degli
ebrei che vivevano in 'coppia mista'".
Leopold Gutterer, vice ministro della propaganda, non concorda con questa
posizione: "Goebbels libero' gli ebrei per eliminare definitivamente
qualsiasi protesta (...) Per evitare che altri imparassero da questa
contestazione e ne imitassero l'esempio, bisognava rimuovere ogni ragione di
malcontento" (5). Nel suo libro piu' importante, La Destruction des juifs
d'Europe (6), Raul Hilberg conferma questa valutazione, scrivendo che i
mariti ebrei di donne tedesche "alla fine furono liberati, perche' si
percepi', in ultima analisi, che la loro deportazione rischiava di
compromettere tutto il processo di distruzione".
Vista in prospettiva, la vittoria delle donne della Rosenstrasse pone agli
storici alcuni interrogativi. Prima di tutto, rappresenta una risposta
sferzante a quanti hanno voluto giustificare la propria passivita' con
l'assunto che contro il regime nazista "non c'era nulla da fare". Anzi,
prova che l'azione poteva farlo recedere, lungi dall'essere solo una
testimonianza simbolica. Al di la' del contesto molto particolare
dell'inverno 1943, induce inoltre ad una riflessione sui rapporti tra la
dittatura e la popolazione: forse la prima ne temeva le reazioni molto piu'
di quanto affermato dalla storiografia tradizionale?
Ecco che si spiegherebbe, tra l'altro, il segreto con cui i dirigenti
nazisti hanno cercato di coprire il genocidio, ma anche il notevole impegno
profuso - come mostra in questo stesso dossier Goetz Aly - nel "comprare" i
tedeschi. Ma, purtroppo, di Rosenstrasse ce n'e' stata una sola.
*
Note
1. Solo un libro in francese tratta in maniera esaustiva questo episodio:
Nathan Stoltzfus, La Resistance des coeurs. La revolte des femmes allemandes
mariees a' des juifs, Phebus, Parigi, 2002. Questo articolo si e' servito
ampiamente delle informazioni ivi contenute.
2. La vicenda e' raccontata nell'omonimo film di Margarethe von Trotta del
2003.
3. Die Oeffentliche Meinung im Hitlerstaat, Berlino 1995, p. 187.
4. Politik der Vernichtung, Piper, Monaco di Baviera 1998, p. 537.
5. Nathan Stoltzfus, op. cit., p. 355.
6. Fayard, Parigi 1988, p. 369, tr. it. La distruzione degli ebrei d'Europa,
Einaudi.

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NONVIOLENZA. FEMMINILE PLURALE
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Supplemento settimanale del giovedi' de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
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Numero 24 dell'11 agosto 2005